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Conversazione sullo stress

Materiali
Quando si è iniziato a parlare di “stress”?

Il termine “stress”, di per sé nasce nel XVII secolo, come sinonimo di “difficoltà”, “stato di afflizione” o simili. Tuttavia, nel significato che gli attribuiamo noi oggi, si è iniziato ad usarlo soltanto negli anni ’20, quando Walter Cannon l’ha associato al contesto della salute e del benessere.

Quindi è un secolo che conosciamo lo stress…

Sì, giusto un secolo, ma il senso che gli attribuiva Cannon è molto limitativo rispetto a quello che gli diamo noi.
Cannon utilizzava la parola “stress” per fare riferimento alla funzione adattativa con cui l’essere umano affronta le minacce mortali. Se una tigre mi viene incontro nella foresta, il pericolo che l’animale rappresenta determina uno “stress”, a cui posso rispondere funzionalmente soltanto in due modi: o combatto o fuggo. Lui lo esprimeva con l’espressione “fight or flight”, o combatti o voli via…

Una visione un po’ elementare…

Indubbiamente sì, che però ha il pregio di mettere in evidenza i tratti salienti di ogni situazione di stress, ovvero il fatto che c’è un evento esterno minaccioso, o almeno doloroso o sgradevole, e il soggetto deve decidere la strategia con cui rapportarsi ad esso. Normalmente può contrastarlo (combatti) o ritirarsi per evitarlo (fuggi).

Detto così sembra che lo stress sia soggettivo…

Infatti lo è. Ciò che determina tutte le reazioni fisiologiche, psicologiche, emozionali e caratteriali, non sono gli eventi, ma le nostre reazioni ad essi. Gli eventi spesso sono inevitabili e immodificabili, ma l’effetto che producono è completamente diverso da persona a persona. Semplificando un po’ potremmo dire che quello che ci fa stare male, non sono gli stressori in sé, ma il modo in cui noi reagiamo ad essi. Il problema dello stress, nella sua essenza, è totalmente dentro di noi, e si determina in base agli schemi di risposta agli eventi esterni che noi abbiamo codificato e che attuiamo quasi automaticamente. In parole povere, siamo noi a farci del male, non le cose che ci succedono. Queste ultime sono soltanto l’occasione per innescare i nostri meccanismi di risposta inadeguati.

Il fatto che si parli di “schemi di risposta” fa pensare che oltre a “combatti o fuggi” ci siano altre modalità?

In effetti ci sono molti schemi diversi che noi tutti utilizziamo per fronteggiare gli stressori; alcuni di essi sono funzionali, ma altri consistono in strategie non efficaci, che ci si rivoltano contro. Il più comune fra gli schemi di risposta inefficaci è la paralisi, il fatto di non combattere né fuggire, di non agire in alcun modo. In realtà in natura non è una strategia disfunzionale, perché molti animali la utilizzano sfruttando le loro doti di mimetismo. Stanno immobili, confusi con lo sfondo del terreno, in modo che il predatore non li veda. Purtroppo, però, le situazioni di stress in cui sono coinvolti gli esseri umani sono molto più complesse rispetto al semplice attacco di un predatore che, se non ti vede, passa oltre. Per lo più la paralisi decisionale nell’essere umano lo lascia in una situazione di attacco permanente e di logoramento progressivo delle risorse.

Ma lo stress è poi davvero una cosa così grave? In un certo senso è inevitabile… la vita di tutti i giorni ce lo impone…

Lo stress è una cosa molto seria e grave, perché ha un potere logorante straordinario, sia dal punto di vista fisico che psichico ed energetico.
Non c’è praticamente organo, apparato o sistema del corpo umano che non venga danneggiato dallo stress. Certamente non accade di colpo, ma soltanto alla lunga… per questo non ce ne rendiamo conto.
Ma al di là dei problemi specifici che lo stress induce sul cuore, la pressione, il respiro, le contratture, le articolazioni, la vista, l’efficienza mentale, ecc. ciò che risulta davvero micidiale è il fatto che lo stress continuativo induce nell’intero sistema corpo-mente uno stato permanentemente infiammatorio, una diatesi fortemente acida, che è il terreno fertile per molte patologie estremamente gravi.
Quanto poi ai danni psicologici, sono sotto gli occhi di tutti: crolli emozionali, sblocchi di rabbia senza ragioni apparenti, problemi relazionali, stanchezza cronica, ecc. hanno spesso alla base la logorante azione dello stress.

Si può essere un po’ più concreti? Che danni fa lo stress?

Questo è un discorso davvero lungo che qui può essere soltanto abbozzato. Diciamo che, innanzi tutto, come ha acutamente rilevato Lowen, le reazioni abitudinarie che noi poniamo in essere di fronte agli stressori, si cristallizzano innanzi tutto nel corpo, determinando degli atteggiamenti posturali ricorrenti che vanno a costituire una vera e propria “corazza”. Ci sono irrigidimenti muscolari permanenti, compressione di determinate articolazioni e distorsioni dell’assetto posturale. Le cose più comuni sono il blocco del diaframma, l’irrigidimento di ginocchia, collo, spalle e schiena, la faticosa convergenza degli occhi. Particolarmente pesanti sono gli effetti del blocco diaframmatico, che possono portare a crisi d’ansia, tachicardia e apparenti attacchi cardiaci. Dal punto di vista delle discipline orientali questi blocchi determinano un grande consumo inutile di energia e rendono più difficile la sua circolazione, determinando stanchezza cronica. In generale nello stato di stress si privilegia la richiesta energetica e sanguigna dei grandi muscoli (sono quelli utilizzati per combattere o fuggire!) e questo può andare a detrimento di altri organi, contribuendo ad esempio all’insorgere di problemi digestivi, già aggravati da altri fattori.
A livello cerebrale lo stress determina un calo di efficienza cognitiva e della memoria, l’attivazione permanente del sistema ortosimpatico, con possibili disturbi del sonno e diminuzione della creatività.
Infine non vanno dimenticati i problemi sistemici. Lo stress fa aumentare il cortisolo ematico, con la conseguenza di deprimere il sistema immunitario. Inoltre contribuisce alla distruzione dei tessuti, compreso quello osseo, aumentando il rischio di osteoporosi, riduce l’efficienza del metabolismo del glucosio, rende le piastrine più “adesive”, aumenta il rilascio di grassi nel sangue e aumenta il rischio di ictus. In generale ingenera nell’organismo uno stato di acidificazione e di infiammazione che è il terreno ideale per il nascere di malattie degenerative gravi, che – sia chiaro – non sono un “effetto” dello stress (o almeno non ci è chiaro se lo siano), ma trovano in esso un alleato formidabile.
In poche parole, lo stress è un killer!

Decisamente preoccupante… Ma la psicologia come lo affronta?

Innanzi tutto bisogna notare che ben poche persone si rivolgono a uno psicologo per fronteggiare lo stress. Normalmente si va in psicoterapia soltanto al manifestarsi di un problema psichico grave e conclamato, o, al limite, in presenza di un trauma forte, ossia di uno dei cosiddetti “Eventi Traumatici Vitali”, come la morte di una persona amata, la separazione dal partner, o simili.
La maggior parte delle persone non hanno alcun approccio psicoterapico allo stress. Semplicemente ci convivono, lamentandosi a vuoto.
Tuttavia bisogna anche dire che l’approccio della psicologia occidentale nei confronti dello stress non si è rivelato molto efficace, anche perché, almeno sino all’inizio del nostro secolo, è stato prevalentemente di tipo verbale-cognitivo.
Per molto tempo le principali scuole psicologiche occidentali non hanno preso in considerazioni variabili di enorme importanza, come la dimensione corporea e sensoriale, l’energia, la dimensione meditativa e spirituale dell’essere umano e, così facendo, si sono private degli strumenti e delle chiavi d’entrata più potenti che abbiamo a disposizione per combattere l’insorgere e gli effetti dello stress.

Psicologia “occidentale”? Perché? Ne esiste qualche altra?

Il mondo orientale, molti secoli prima di noi, ha elaborato dei potenti sistemi introspettivi, adatti al lavoro psicologico e pedagogico individuale, proponendo modelli della realtà e strumenti particolarmente adatti per lavorare sul problema dello stress. Purtroppo la psicologia occidentale ha lungamente ignorato il patrimonio psicologico presente nello yoga, nel tantra e nel buddhismo. Solamente negli ultimi quarant’anni c’è stata un’azione di recupero di informazioni e tecniche da parte di varie scuole psicologiche occidentali, come la bioenergetica, la psicoanalisi junghiana, la psicosintesi e le psicoterapie orientate alla “mindfullness”. Grazie a questi approcci oggi disponiamo di strumenti più potenti e raffinati per gestire le tematiche dello stress.

Quindi si può fare qualcosa per diminuire lo stress?

Ci sono due approcci possibili: il primo, il più debole, consiste nell’utilizzare strumenti e pratiche in grado di ridurre lo stato di stress e gli effetti psicofisici ed energetici che esso provoca. Si tratta dell’approccio più debole perché sostanzialmente interviene sui sintomi. Attraverso l’uso di opportuni strumenti naturali (aromi, suoni, tecniche di respirazione, lavoro muscolare e posturale, ecc.) si cerca di intervenire sulle variabili che lo stress altera.
Il secondo approccio, molto più potente e radicale, consiste nell’intervenire sugli schemi e gli automatismi soggettivi di reazione agli eventi che determinano lo stress. Ovviamente questo è un intervento assai più profondo, di valore evolutivo. Nel primo caso l’individuo resta quello che è, con tutti i suoi limiti caratteriali e i suoi automatismi psicoemozionali e cerca di contenere gli effetti devastanti di questi limiti, mentre nel secondo caso intraprende una vera e propria azione di crescita pedagogica, un percorso evolutivo che lo porta ad essere diverso, a vedere e interpretare la realtà con occhi nuovi che disinnescano lo stress ancora prima che abbia avuto la possibilità di produrre effetti.

È saggio utilizzare entrambi gli approcci?

Assolutamente sì. Personalmente, sia nei miei corsi, che nei percorsi evolutivi individuali che accompagno, propongo entrambe le prospettive. È essenziale disporre di strumenti, per così dire, di “emergenza”, in grado di ridurre comunque il livello quotidiano dello stress prima che divenga devastante. Gli approcci in tal senso sono molti e ciascuno deve trovare quello che funziona meglio per sé. Ognuno di noi ha diversi canali sensoriali preferenziali: c’è chi reagisce di più al suono, chi all’aroma, chi al tocco, chi al colore, ecc. Chi si scarica nell’azione e chi ritrova la centratura nella contemplazione. Occorre conoscere molti strumenti per utilizzare quelli più idonei alle circostanze e all’individuo.
Personalmente, sia nei corsi che nell’accompagnamento individuale utilizzo olii essenziali, fiori di Bach, tecniche corporee sia attive che di “self bodywork”, sound healing, cromoterapia e, in generale, tutto il bagaglio di strumenti presente nella discipline orientali.
Tutto questo, però, aiuta a “mettere una pezza” sulla questione dello stress, ma non affronta la radice del problema, che consiste nei nostri atteggiamenti di fondo rispetto alla realtà, negli schemi reattivi che abbiamo introiettato.

Si può lavorare anche su questi schemi reattivi?

Certamente sì. Naturalmente si tratta di un processo evolutivo più lento, che l’individuo deve consapevolmente scegliere. È un vero e proprio percorso pedagogico che un essere umano adulto e consapevole sceglie liberamente di effettuare per diventare effettivamente più libero.

È una forma di terapia?

Bisogna capire cosa si intende con questo termine. Se con la parola “terapia” intendiamo un protocollo che vada a curare una specifica “malattia”, allora combattere lo stress non è una terapia. Lo stress non è una malattia: è il risultato di un atteggiamento esistenziale; è la conseguenza di una certa visione del mondo, un problema filosofico prima ancora che psicologico o medico.
Se invece con il termine “terapia” intendiamo un percorso di guarigione esistenziale che conduca ad una migliore integrazione delle proprie componenti fisiche, psichiche, energetiche, emozionali e spirituali, allora la lotta allo stress è una delle terapie più importanti.

Concretamente, cosa si può fare per “riformattare” i propri schemi reattivi?

A questo proposito ogni scuola psicoterapica ha i suoi metodi specifici. Per quanto mi riguarda mi ispiro alla tradizione filosofica e psicologica dello yoga, del tantra e del buddhismo e utilizzo strumenti che vanno a lavorare sulla dimensione corporea, sensoriale ed energetica. A tutto questo aggiungo un lavoro di pratica quotidiana incentrato sugli archetipi.

Archetipi? Cosa sono?

Quando noi diamo una lettura distorta della realtà e automatizziamo certi schemi reattivi che ci portano a una condizione di stress, ciò significa che alcune “informazioni” esistenziali che dovrebbero servirci per interagire armonicamente con la realtà, sono state danneggiate e debbono essere riscritte.
Pensiamo al sistema operativo di un computer. In esso vi sono molti files che gli consentono di effettuare correttamente certe operazioni in cui consiste il buon funzionamento della macchina. Se alcuni di questi files vengono danneggiati, certe funzioni vengono danneggiate o diventano del tutto impossibili. Questi files devono essere riscritti e va riportata l’informazione originaria.
Nell’essere umano accade qualcosa di simile. Per avere un rapporto armonico con la realtà, noi dovremmo sviluppare alcuni “files” di atteggiamento, come, ad esempio, la capacità di stare nel “qui e ora”, l’attesa del tempo propizio, la capacità di abbandono, il senso del rispetto, ecc. Purtroppo, spesso, le esperienze della vita, sin dall’età infantile, fanno sì che queste “competenze esistenziali” vadano perdute e l’individuo non riesca più a interagire armonicamente con se stesso e con la realtà esterna.
Il lavoro con gli archetipi è proprio la paziente riscrittura di queste competenze esistenziali, ossia dei “files” psicologici danneggiati. Gli archetipi sono figure simboliche, presenti nel nostro immaginario, sia individuale che di specie, che incarnano determinati valori e specifiche modalità di guardare la realtà. Riflettendo su un archetipo, sui valori che esso incarna, cercando di portare questo “sguardo” nella mia vita quotidiana, io progressivamente cambio il mio punto di vista e dunque cambio il modo in cui decodifico la realtà.

Comunque, al di là di questo lavoro radicale, è importante avere delle valvole di sfogo?

Sì, certamente, altrimenti si scoppia. Ciascuno deve trovare le sue: c’è chi va a correre, chi si guarda un film, chi crea un maglione ai ferri… Tuttavia bisogna anche capire che questo non è il modo più intelligente per affrontare il problema. Confidare nelle proprie valvole di sfogo è un po’ come utilizzare un sistema idraulico o elettrico, pur sapendo che funziona male, che va in sovraccarico, ma confidando sul salvavita che scatta o sul funzionamento delle valvole di emergenza… Il giorno in cui, per qualsiasi ragione, i sistemi di emergenza non funzionano come dovrebbero, salta tutto in aria… Sarebbe molto più saggio mettere in equilibrio il sistema in modo da non avere sovraccarichi.
In sostanza, fuori di metafora, occorre rivedere in profondità i nostri meccanismi di reazione alla vita piuttosto che rispondere sempre in maniera disfunzionale e poi cercare delle valvole di scarico, perché quando le condizioni esterne ci impediscono di utilizzarle – e accade spesso – noi letteralmente “esplodiamo”.

In conclusione, riguardo allo stress c’è un nucleo centrale da sottolineare?

Credo che il nucleo essenziale di qualunque comunicazione riguardo allo stress sia quello di comprendere una volta per tutte che non possiamo né dobbiamo continuare per forza a convivere con esso. Lo stress non è “normale”, né ovvio o inevitabile. Non dobbiamo darlo per scontato, né autoconvincerci che “in fondo” non fa poi così male… Lo stress è un killer, micidiale, insidioso, che ci toglie la vita progressivamente, quella psichica innanzi tutto e spesso anche quella fisica. Occorre fare seriamente qualcosa per bloccarlo o almeno ridurlo sensibilmente, se si vuole vivere una vita “umana” e non semplicemente sopravvivere adeguandosi più o meno bene a standard sociali che non abbiamo fissato noi.
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