Come e perché è nato il "Prana Viveka Yoga"

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Come e perché è nato il "Prana Viveka Yoga"

Studio Lacchini - formazione culturale - percorsi evolutivi
Pubblicato da Luigi Lacchini in yoga · 9 Marzo 2020
Tags: yogapranakumnyetantrabodywork
Il “Prana Viveka Yoga” costituisce una simpatica contraddizione. Non è affatto una disciplina orientale antica, ma la sua anima unisce molte discipline antiche; non si tratta affatto di una mia invenzione, eppure l'ho creato io. Per chiarire senza equivoci di cosa si tratta, la cosa migliore che posso fare e raccontarne la storia, in modo tale che, chi decidesse di praticarlo, lo faccia in piena consapevolezza.

Tanti anni fa...

Da molto tempo accompagno le persone che me lo chiedono in percorsi esistenziali, verso una migliore integrazione delle proprie componenti: maschile e femminile, corpo e psiche, energia e spirito. È un'attività di “life coaching” o se si vuole di “counseling filosofico” iniziata quando queste discipline e questi termini non erano ancora stati inventati. In realtà la mia è sempre stata semplicemente filosofia, o meglio “pratiche filosofiche”, ossia una flessione pragmatica, concreta, esistenziale del pensiero filosofico, ispirata ai Sofisti, a Socrate, alle scuole ellenistiche e in generale a tutte le manifestazioni del pensiero filosofico orientate all'accompagnamento dell'essere umano nella difficile arte di vivere.

Per non muovermi con superficialità in questa delicata missione, da oltre quarant'anni mi sono addentrato nel pensiero filosofico occidentale, nella psicopedagogia e nelle discipline orientali, che sono una forma particolarmente potente di “pensiero filosofico pratico”.
Verso la fine degli anni '90, proprio basandomi su un'esperienza personale già ventennale in numerose discipline orientali (wushu, taiqi, qigong, kum nye, varie forme di yoga, ayurveda, shiatsu), ho iniziato a mettere a fuoco che, se si vuole davvero accompagnare l'essere umano in un percorso di integrazione delle sue componenti, occorre inevitabilmente coinvolgere la dimensione corporea e sensoriale, anche se, ovviamente, non ci si può limitare a quella. In fondo uno dei grandi errori o quanto meno dei limiti della psicologia del XX secolo è stato proprio quello di essere un esercizio fondamentalmente mentale e quindi largamente insufficiente per l'uomo e la donna in carne ed ossa.

È nata così l'esigenza di avere a disposizione un repertorio di tecniche corporee che lavorassero sull'integrazione di molti aspetti: corpo, respirazione, sensorialità, psiche, energia, propriocettività, consapevolezza.
Non tecniche da fitness, non stretching, non benessere, non relaxing. Qualcosa invece che aiutasse a sperimentare stati di coscienza più raffinati rispetto alla veglia, una sorta di meditazione in movimento, di spiritualità a mediazione corporea. Un insieme di tecniche attraverso le quali scuotere l'inerzia psichica, aggirare le resistenze della mente, abilissima nell'impedire ogni forma di cambiamento.

Il progetto prende vita...

Avevo davanti a me un ampio repertorio di tecniche a cui attingere, tradizioni millenarie che avrei potuto abbracciare semplicemente riproponendole. La questione, però è che io mi sono sempre mosso con un atteggiamento pragmatico, concreto e disincantato. Sono radicalmente “occidentale”, da sempre  sostenitore del “pensiero debole”, e trovo veramente indigesta la consuetudine orientale di rifarsi, di maestro in maestro, sino alla “rivelazione divina” delle discipline e delle tecniche. Perciò in tutte le tradizioni e discipline trovo spunti, suggestioni, tecniche, consapevolezze degne di nota, ma a nessuna riconosco il diritto di autoproclamarsi detentrice della “verità”.

Dello yoga apprezzavo la profonda consapevolezza corporea, ma non la “deriva” acrobatica e di fitness. Non mi piaceva la sua staticità, perché la mia formazione “cinese” (e quella greca eraclitea) mi avevano insegnato che gli opposti devono coesistere se si vuole equilibrio e che il dinamismo è l'essenza della vita. La consapevolezza psicoenergetica che fornisce il movimento, soprattutto quello lento, è formidabile: l'avevo imparato dal kum nye, dal qigong e dal taiqi. Però l'essere umano è anche yang, movimento esplosivo, manifestazione intensa e tanti anni di arti marziali mi avevano regalato una profonda consapevolezza di questo. Oltretutto io volevo utilizzare queste tecniche psicofisiche per lavorare su specifici problemi o blocchi di individui concreti, per cui non aveva molto senso seguire pedissequamente una qualunque tradizione rivolta a una globalità generica.

Per questo motivo mi sono messo a fare l'unica cosa che mi è parsa funzionale alle mie esigenze. Rivisitare tecniche, posizioni, movimenti, per renderli adeguati allo scopo che mi prefiggevo. Lasciando perdere tradizioni e infinite lotte fra scuole, culture, maestri, ho ridato parola al corpo: mi sono messo semplicemente in ascolto di ogni movimento, di ogni posizione, ho “sentito” propriocettivamente gli effetti di ogni esercizio, l'impatto psicologico, emozionale ed energetico di ogni tecnica.
Ho provato e riprovato su di me e invitato a provare tante altre persone che, insieme a me, hanno sperimentato, limato, ascoltato posizioni e movimenti, sino a far sedimentare progressivamente una serie di tecniche raffinate, adattabili a tutte le esigenze e a tutti i soggetti.

Si è ben presto manifestata l'esigenza di coordinare attentamente posizioni e movimenti con la respirazione, componente decisiva del lavoro psicofisico. La mia lunga esperienza nel campo della psicologia del suono e della musica (studi che porto avanti dal 1983), mi ha condotto anche a pormi il problema di supportare le tecniche corporee con stimolazioni sonore adeguate e fonazioni effettuate dal praticante stesso, facendo entrare in gioco anche la dimensione che oggi viene detta del “sound healing”.
In questo modo prendeva progressivamente forma una vera e propria disciplina psicoenergetica, sempre più raffinata e complessa, che ha raggiunto una sua prima fase di elaborazione intorno al 2004.  
Negli ultimi sedici anni, accanto a tanto lavoro esperienziale che ha sviluppato questo nucleo originario, si è aggiunta anche la dimensione meditativa, nelle tre forme tradizionali del mondo indu e buddista:  

  • meditazione “concentrativa” (dharana/samatha) che utilizza “semi” meditativi di tradizione tantrica (mantra, yantra, corporeità, respirazione);
  • meditazione “di apertura” (dhyana/vipassana), sia strutturata che libera, statica e in movimento (camminata zen);
  • meditazione di “gentilezza amorevole” (metta).
Sintesi o marmellata?

Ovviamente, tutto questo, che per me costituisce una sintesi esperienziale di grande efficacia a cui ho dedicato decenni della mia vita, a molti può sembrare soltanto una disgustosa marmellata. Il punto, a mio parere, non è valutare o giudicare ("sport" fin troppo praticato nello “spirituale” mondo delle discipline orientali e del coaching esistenziale), ma sperimentare, provare concretamente.

Molta gente “parla” della Via, ma ben pochi la percorrono.”

Forte dell'antico detto, non mi prenderò alcuna cura delle critiche da tavolino di presunti puristi di questa o quella tradizione. Semplicemente “so”, per esperienza personale e largamente condivisa, che queste tecniche fanno abbastanza bene quello per cui sono state create. E questo, francamente, mi basta e avanza.
Tuttavia, proprio perché sono consapevole del fatto che ognuna delle tecniche del Prana Viveka Yoga ha la sua radice in qualche disciplina antica, me ne guardo bene dall'affermare che si tratti di una mia creazione. Pur avendo contribuito a darle una forma, di certo non è una mia invenzione e, pur essendo nata da vent'anni, in realtà è antichissima. Ecco così sciolto il paradosso con cui ho iniziato questa introduzione.

So anche che il Prana Viveka Yoga non è la panacea universale, che va praticato seriamente e con costanza per dare dei frutti; è uno strumento raffinato e imperfetto, che, per essere d'aiuto in un percorso esistenziale, va integrato con altre forme di lavoro come ad esempio il dialogo psicologico o filosofico.

Perché questo nome?

Perché “Prana Viveka Yoga”?
All'inizio in realtà non mi sono minimamente posto l'esigenza di dare un nome a queste tecniche. In effetti le etichette non mi hanno mai interessato. Per molti anni questi sono solo stati “esercizi particolari” provati da me e proposti a singoli e piccoli gruppi come tecniche di meditazione a mediazione corporea.
Ad un certo punto, però, l'insieme delle tecniche ha iniziato ad assumere una prospettiva unitaria e coerente e mi è sembrato ragionevole dargli un nome per designare sinteticamente questa specie di “universo psicoenergetico” congruente che stava nascendo.

Il nome, che lo si creda o no, mi è “arrivato” in stato meditativo; con questo non intendo dire che si tratti di una ispirazione divina (per carità! Volo molto più basso!) ma che si è quasi “imposto” a me in uno stato di vuoto mentale durante il quale probabilmente i mie borborigmi inconsci hanno potuto manifestarsi senza interferenze.
Però mi è piaciuto subito, perché esprime la sostanza di questa disciplina: lavoro sull'energia e sulla consapevolezza.

Il termine “prana” è l'espressione sanscrita che indica quella nozione vaga e interculturale che attraversa tutto l'oriente: l'energia sottile. Chiamata “Qi” in Cina, “Ki” in Giappone, condivisa dalle culture Tibetana, Nepalese, Indonesiana e Thailandese, l'energia sottile è il denominatore comune di tutte le medicine e antropologie dell'oriente. Gli esercizi e le posizioni del Prana Viveka Yoga contribuiscono a risvegliare e potenziare l'energia; il praticante, col tempo impara a percepirla, dirigerla e utilizzarla.
Secondo le culture orientali l'energia costituisce l'essenza stessa della Vita. L'occidente, dopo avere lungamente deriso queste concezioni vitalistiche, negli ultimi vent'anni sta riconsiderandole molto più attentamente, alla luce di esperienze empiriche, ricerche scientifiche e modelli teorici come la relatività generale e la quantistica che sembrano confermarne la plausibilità concettuale.

Il termine “viveka” significa invece “discernimento”, ovvero capacità di discriminare fra diverse esperienze e quindi “consapevolezza”, sia del corpo fisico che di quello energetico. Il “Prana Viveka Yoga” addestra esattamente a questo: allenando il praticante alla totale presenza nel qui e ora, ottenuta attraverso l'esecuzione consapevole del movimento e della posizione, grazie alla sensibilità propriocettiva riguardante i flussi sottili di energia e il muoversi subliminale degli stati emotivi.

Fin qui tutto bene.
Ma siamo certi di poter parlare di “Yoga”?

Personalmente credo di sì, purché si intenda il termine nel suo significato più profondo. Come ho già avuto occasione di ribadire in vari scritti, il termine “Yoga” reca con sé i significati di “unione”, “tensione interiore”, “disciplina” e “metodo”. E tutto questo esprime perfettamente cosa sia il “Prana Viveka Yoga”.
In sostanza, un metodo, una disciplina per lavorare su e con l'energia e la consapevolezza, con l'intento di condurre l'individuo alla sua profonda unità, aperta alla tensione verso l'Oltre, la dimensione che trascende quella fisica. Il “Prana Viveka Yoga” è esattamente questo.

Yoga tantrico?

Considerato che le tecniche del “Prana Viveka Yoga” derivano da tecniche appartenenti a quasi tutte le culture dell'oriente, si può riconnettere in modo privilegiato questa disciplina con qualche area culturale e spirituale?

  • innanzi tutto il nucleo del Prana Viveka Yoga è il lavoro sull'energia, che rappresentava l'anima del Tantra kashmiro dove alcune scuole (come ad esempio quella “Spanda”) erano centrate sul concetto di frequenza e vibrazione energetica;
  • in tutto il mondo tantrico antico, la sottolineatura del corpo e della materia come “luoghi” dove si rende presente il divino è una delle discriminanti rispetto alla via yogica di Patanjali;
  • la concezione corporea del Tantra è più centrata sulla dimensione energetica e alchemica del corpo, che non su quella fisica; il corpo è portatore di simboli e significati, di geometrie sacre e archetipi incarnati. Il Prana Viveka Yoga fa propria questa sensibilità, perché a ogni kriya (movimento) e ad ogni asana (posizione) associa un'informazione, una lettura simbolica;
  • le espressioni moderne del Tantra ispirato al kashmir danno una grande rilevanza alla presenza nel qui e ora, e all'importanza della consapevolezza discriminativa. Il kum nye tibetano, che è la disciplina forse più vicina alla sensibilità tantrica, è particolarmente attenta allo sviluppo della propriocettività sottile. Questo è esattamente uno dei nuclei ispiratori del Prana Viveka Yoga;
  • inoltre il Tantra ha sempre sottolineato l'importanza della dimensione polare, l'essenzialità dei contrari nella dinamica della Vita. Il Prana Viveka Yoga cura di coltivare sia la dimensione yin che quella yang negli esercizi e prevede una serie di esercizi eseguibili in coppia;
  • il Tantra tradizionale fa largo uso di tecniche legate alla vibrazione sonora (mantra); il Prana Viveka Yoga fa propria questa sensibilità, anche se in un modo molto diverso, inserendo suoni e fonazioni a precise frequenze durante l'esecuzione di alcuni esercizi;
  • anche l'utilizzo di yantra e geometrie come bija per la meditazione è tipicamente tantrico e costituisce un'altra similitudine col Prana Viveka Yoga.

Tutto ciò, sia ben chiaro, non significa affermare che il Prana Viveka Yoga sia Tantra kashmiro, ma semplicemente che vi sono in esso sensibilità di tipo tantrico. Ad esse si uniscono consapevolezze provenienti da altri orizzonti culturali, come la medicina tradizionale cinese (che guida tutta la riflessione sull'effetto che gli esercizi hanno in rapporto ai meridiani energetici), la bioenergetica, l'integrazione posturale nella sua valenza psicosomatica.



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