La teoria dei contesti cognitivi

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La teoria dei contesti cognitivi

Studio Lacchini - formazione culturale - percorsi evolutivi
Pubblicato da Luigi Lacchini in filosofia occidentale · 25 Gennaio 2015
Tags: filosofiadellascienzagnoseologia
La teoria dei contesti cognitivi
Dal feticcio-scienza all'orizzonte dei "saperi"


Pro o contro la scienza?

La scienza oggi divide.
Spesso, quando tengo incontri, corsi o conferenze, incontro due contrapposte tipologie di atteggiamenti nei confronti del sapere scientifico. Vi sono persone e contesti in cui vige l'equazione "scientifico = vero". La scienza è considerata il luogo depositario della verità, anzi, di più, l'unico luogo di questo deposito.
Contro questa "setta scientista" si scagliano altri contesti e persone, che sono convinti dell'esatto contrario: la scienza è il luogo dell'aridità, della pura razionalità, è l'approccio che esclude dal sapere tutte le variabili tipicamente umane (bellezza, emozione, soggettività, ecc.) e quindi è, per definizione, luogo di un sapere disumano, sostanzialmente da rigettare.
Le due sette – scientista e antiscientista – come tutte le sette, non dialogano né fra loro né con altri approcci gnoseologici e quindi ai miei occhi appaiono sostanzialmente come atteggiamenti mentali ottusi, che restano molto al di sotto della complessità del fenomeno "conoscere".

Personalmente mi sono misurato profondamente con la natura e i limiti dell'approccio scientifico alla conoscenza; da filosofo della scienza e logico ne ho esplorato il funzionamento, visto l'intrinseca bellezza e compresa l'altrettanto intrinseca povertà. Come meditatore e musicista, invece, ho esplorato percorsi cognitivi non-verbali, vissuto esperienze di confine, sono passato attraverso forme di "conoscenza" mediate dall'arte, dall'intuito soggettivo e dal tocco, a volte entusiasmandomi, ma vedendo anche tutti i rischi di proiezione e manipolazione che esse comportano.

Dalla scienza ai "saperi"

Quando ho iniziato la creazione del BTC Method, mi sono inevitabilmente scontrato con la necessità di indicare a quale gnoseologia intendessi fare riferimento: il BTC Method è "scientifico", "artistico", "oggettivo", "soggettivo", o che altro...? La risposta a questa domanda è proprio la "Teoria dei contesti cognitivi", attraverso la quale, invece di schierarmi pro o contro la scienza, ho voluto tracciare la mappa di quelli che, secondo me, sono gli approcci conoscitivi irrinunciabili per l'essere umano. E' nata così la consapevolezza di quanto sia complessa la gamma degli strumenti che noi possiamo (dobbiamo?) utilizzare per giungere alla conoscenza e di come, quest'ultima, si articoli in molte dimensioni e livelli che è necessario integrare fra loro.
In sostanza la creazione di un'antropogogia davvero olistica, utilizza differenti strategie gnoseologiche, che vanno ben oltre il riduttivistico approccio scientifico-razionale ma sono altrettanto caute di fronte all'ingenuità di certe prospettive "new age". L'intento è quello di passare dalla prospettiva della "scienza" a quella dei "saperi". Divenire consapevoli del fatto che esistano tanti e diversi "saperi", di cui la scienza è solo un caso particolare, mette fine – o almeno dovrebbe – alle guerre settarie. Ogni sapere dev'essere compreso nella sua natura profonda, specificando ciò che può attingere e ciò che sta fuori dalla sua portata. E' l'essere umano che dovrà operare la sintesi, il più possibile armonica, tra i saperi, perché ognuno di essi dischiude un tratto della natura umana di cui non possiamo fare a meno.
Come amo spesso ripetere, la scienza non ha bisogno della mistica, né la mistica della scienza, ma io, personalmente, ho bisogno di entrambe!

I sei contesti cognitivi

La teoria dei contesti cognitivi muove essenzialmente dall'osservazione empirica delle strategie conoscitive che l'essere umano ha adottato nella sua vicenda storica, sia individualmente, sia come specie, facendo emergere i nuclei gnoseologici più forti e significativi che hanno determinato il formarsi della consapevolezza e del bagaglio culturale dei singoli e della specie. A mio avviso, tali contesti cognitivi sono sostanzialmente sei:

  • il contesto cognitivo "pragmatico-esperienziale"
  • il contesto cognitivo "poetico-artistico"
  • il contesto cognitivo "storico-documentale"
  • il contesto cognitivo "metafisico"
  • il contesto cognitivo "logico-razionale"
  • il contesto cognitivo "mistico"

Ciascuno di questi diversi contesti cognitivi rappresenta un "blick", un particolare punto di vista, che dischiude una certa visione della realtà e della vicenda umana, apre una specifica prospettiva, si serve di determinati processi mentali e operativi, costruisce particolari forme di sapere e presenta limiti intrinseci. Nessuno di essi è "oggettivo", né assoluto. Nessuno di essi dischiude "la verità". Ogni contesto cognitivo è soltanto un approccio parziale, più o meno funzionale verso alcuni specifici problemi e ambiti della realtà. Tuttavia, non si tratta di sei modalità gnoseologiche chiuse ed isolate: al contrario, ciascuna di esse è in profondo rapporto con alcune altre e, considerate nel loro complesso, costituiscono una specie di “cerchio” gnoseologico estremamente suggestivo.

Contesto cognitivo "pragmatico-esperienziale"

Il contesto cognitivo pragmatico-esperienziale è senza dubbio il punto di partenza di ogni strategia conoscitiva, che si esprime sia individualmente (è l'approccio alla realtà già tipico del bimbo) che a livello di specie, nella forma delle culture popolari.
Questo approccio, apparentemente banale, consiste nell'imparare dalla propria esperienza, cosa che, a parole, sappiamo fare tutti. Le cose, però, non stanno così. Se fosse davvero facile imparare dall'esperienza non ci sarebbero persone che reiterano i medesimi errori (di approccio, di relazione, di gestione del proprio corpo o del proprio tempo, ecc.) per anni e, a volte, per l'intera vita.
In realtà, imparare dall'esperienza significa potenziare adeguatamente la capacità di osservare, quella di discriminare tra esperienze diverse e di concatenare situazioni di causa-effetto. Osservare non è affatto una cosa scontata. Incontro moltissime persone, nei corsi di analisi morfologica e posturale, che letteralmente "non vedono" dettagli anche macroscopici, oppure colgono inezie ma non aspetti essenziali. C'è in tutti una grande smania di "interpretare" segni, di attribuire significati, chiavi di lettura, ecc., che opera praticamente sul nulla, perché se non si è "visto", neppure si può intendere.
E per "vedere" occorre quiete mentale, centratura, vuoto... Per "vedere" realmente occorre tacitare le proiezioni, la smania di "capire"; occorre l'atteggiamento contemplativo tipico dei bimbi, totalmente assorbiti nell'esperienza, senza giudizio su di essa. Osservare è il primo gradino della consapevolezza e del risveglio.
I processi e le abilità cognitive che questo atteggiamento costruisce nell'adulto sono parecchi e fondativi. Primo fra tutti l'atteggiamento dell'"essere presenti"; l'osservazione pragmatico-esperienziale può vivere solo nel "qui e ora". Di qui discendono la capacità di grande concretezza che questo approccio gnoseologico produce, l'abilità a fornire risposte immediate (anche se magari non sempre ottimali), l'attitudine al "problem solving".
L'esperienza corporea, che si acquisisce nel lavoro su di sé e insieme agli altri, attraverso il tocco, appartiene in parte a questo orizzonte cognitivo. Osservazione, capacità di cogliere segnali sottili senza perdere di vista quelli grossolani, capacità di ascolto, presenza e consapevolezza sono ingredienti essenziali nel "touch" e nel "bodywork".
Tuttavia non ci si può rinchiudere nel contesto cognitivo pragmatico-esperienziale, perché esso muove di fatto dai ridotti punti di vista dell'ossevatore e spesso dà luogo a pseudo-saperi, incarnati nelle tradizioni popolari, che sono un mix di saggezza e pregiudizio, di coglimento dell'essenziale e di sovrastrutture sociali spesso banali e castranti. Perciò, sin dagli albori della sua vicenda sul pianeta, l'essere umano ha concepito altre modalità per decodificare il mondo e se stesso.

Contesto cognitivo "poetico-artistico"

Si tratta di un approccio conoscitivo che appartiene all'essere umano sin dall'alba della sua esistenza. Già le culture del paleolitico, attraverso incisioni rupestri, reperti fittili, ecc., testimoniano un rudimentale approccio artistico alla realtà. L'intento di imitare ciò che si è visto, raccontarlo, lasciarne memoria. Oppure, come nell'arte egizia, l'intento di rappresentare graficamente ciò che si conosce, ancor più di ciò che si vede.
L'approccio poetico-artistico sembra nascere innanzi tutto con l'intento di raccontare e documentare e quindi dall'idea di tramandare e di dare testimonianza (il che ne fa l'interlocutore naturale dell'approccio storico). Tuttavia, molto presto l'approccio poetico artistico inizia ad esprimere assai più di ciò che vede o ricorda. Esprime ciò che ha compreso. Già nell'arte greca, ad esempio, si esprime la comprensione della "misura", della proporzione, del rapporto perfetto, si coglie l'idea nascosta nelle cose, che dà loro forma.
Il contesto cognitivo poetico-artistico diviene così il luogo privilegiato dove si creano e si decodificano segni, simboli, metafore, significati, che non necessariamente vengono espressi verbalmente, ma rappresentati nei modi dell'arte. La letteratura, le arti figurative, la musica, la danza, il teatro, scaturiscono da questo approccio gnoseologico e popolano il mondo di "visione", lo rileggono dal punto di vista della categoria dello "stupore", lo approcciano nell'ottica del bimbo, ne colgono l'aspetto di intrinseca magia.
Questa dimensione fiabesca è tanto essenziale per l'essere umano quanto lo è quella onirica per la mente. Se si atrofizza questa dimensione si paga un prezzo evolutivo altissimo: scompare la dimensione del mistero, si atrofizza la fantasia, che è la radice della creatività, ci si rinchiude nella brutalità della dimensione materiale, non ci si "allena" più a intravedere lo spazio dell'Oltre, del vuoto che si nasconde fra le linee, dell'idea-forma che riposa nella materia. Credo che la grande esperienza artistica sia davvero la propedeutica alla mistica, perché attraverso ciò che si vede e si tocca, porta al di là di ciò che si vede e si tocca. Attraverso la musica conduce a scoprire che siamo vibrazione e informazione, attraverso la danza porta il corpo ad esprimere l'invisibile.

A volte mi è stato contestato che non è corretto assumere una prospettiva poetico-artistica nell'approccio psicologico, pedagogico e antropogogico, perché essa è inevitabilmente soggettiva e proiettiva. Io sono di tutt'altro parere.
Concordo pienamente sul fatto che l'approccio poetico-artistico sia soggettivo e proiettivo, ma proprio per questo, a mio avviso, è decisivo. Le immagini, le forme, le idee, gli archetipi che un essere umano vede nella realtà che lo circonda, certamente non mi dicono nulla della "realtà", ma mi dicono molto di colui che la vede. E questo rende l'espressione poetico-artistica uno strumento essenziale per l'introspezione del soggetto. In fondo si tratta del principio che sta alla base di tutti i test proiettivi in psicoterapia.
Inoltre, quando si sale da un punto di vista individuale a quello di specie, l'espressione poetico-artistica consente di osservare come, culture diverse e molto lontane fra loro, nelle loro espressioni artistiche si siano servite (o abbiano creato?) archetipi simili, forme simboliche ricorrenti, stilemi espressivi, che potrebbero (il condizionale è d'obbligo) parlarci di un fondo comune dell'essere umano in quanto tale, ridarci le chiavi di decodifica della realtà che ogni uomo e donna possiede "naturalmente", farci scoprire la categorizzazione di base che poi, spesso, la filosofia si è incaricata di esprimere verbalmente.

Contesto cognitivo "storico-documentale"

L'identità è memoria.
È essenziale riflettere su questa equazione per comprendere la profonda necessità che l'essere umano ha di questo approccio cognitivo. La mia identità incarnata, ovvero il fatto che io mi percepisca come Luigi Lacchini, dipende dal fatto che mi ricordi chi ero "ieri" e i giorni precedenti. Non a caso, chi perde la memoria perde l'identità, perché nella memoria riposa tutto il contesto relazionale (con persone, ambienti, esperienze, ecc.) che fa di un essere umano un uomo o una donna specifica.
Tuttavia non è molto difficile rendersi conto che la memoria non è affatto un processo "oggettivo", come a volte si crede, ma selettivo e, spesso, proiettivo. Io non ricordo affatto tutti gli eventi che mi riguardano; ne ho selezionati alcuni e altre persone ne hanno selezionati altri che mi hanno riportato, facendomi credere che siano importanti per definire "chi sono". In molti casi il ricordo non è nitido e viene integrato sulla base di ricostruzioni proiettive di cui spesso non siamo neppure coscienti. La mia identità è una serie di memorie selezionate e, talvolta, costruite ad hoc.
La stessa cosa avviene a livello di specie; saperi come l'archeologia o la storia, ci riconsegnano memorie selezionate, estrapolando dall'infinita messe dei "dati" possibili, quelli ritenuti "significativi", ovvero realmente espressivi dell'identità di una cultura o di un periodo. Il processo è in larga parte arbitrario, non nel senso che sia deliberatamente deformativo, ma inevitabilmente parziale e proiettivo.

Fra i dati di memoria e la ricostruzione di un'identità vi sono tre filtri:

  • veniamo in possesso soltanto di una piccola parte di "tutti" i dati che caratterizzano un individuo o un periodo storico;
  • all'interno di questa selezione ne operiamo un'altra, decidendo quali fra i dati disponibili siano significativi;
  • "rileggiamo" questa doppia selezione collegando e interpretando i dati disponibili-significativi sulla base di nostre visioni, precomprensioni, informazioni, aspettative, pregiudizi, ecc.

Il risultato di questo processo distorsivo, lo chiamiamo "identità" (di un individuo o di un periodo storico); è un curioso procedimento, che muovendo da presupposti oggettivi (i "dati" sono pur sempre tali), è del tutto soggettivo. Ciò che emerge parla più del ricostruttore che della reale identità.
Questo vale anche quando l'identità ricostruita è la mia e sono io lo storico di me stesso. L'identità che mi attribuisco, in realtà, non dice davvero chi sono, ma che filtri utilizzo per guardare le cose.
Prendere coscienza di tutto questo è essenziale nei processi pedagogici; a volte un essere umano vive un blocco evolutivo perché è intrappolato in una certa immagine di sé che viene dalla memoria e quest'ultima è stata in gran parte creata da genitori, maestri, insegnanti, amici, mogli, ecc. La mia identità finisce con l'essere ciò che altri mi hanno rimandato di me. A volte è sufficiente far riaffiorare altri dati di memoria, togliere l'importanza ad alcuni e darne maggiore ad altri, per guardare a se stessi in modi nuovi e inaspettati.
Questo è vero sia a livello individuale che di specie. La selezione specifica di certe memorie è ciò che ci fa classificare una civiltà come portatrice di determinate caratteristiche piuttosto che altre. Se invece di selezionare e "ricordare" dati relativi alla tragedia o alla filosofia, selezionassimo solo testimonianze sulla condizione femminile, come cambierebbe la nostra percezione della civiltà greca classica?
Perciò il contesto cognitivo storico-documentale è una modalità di approccio con la realtà che risulta essere al contempo essenziale e da superare o, quanto meno, da relativizzare. Essenziale perché senza identità, senza de-limitazione, nel mondo incarnato non c'è manifestazione e, al tempo stesso, da relativizzare perché è facile cogliere che qualunque manifestazione è appunto figlia di una de-limitazione parziale e arbitraria e potrebbe dunque essere diversa. Allenarsi all'utilizzo del contesto cognitivo storico-documentale porta a cogliere come le identità, sia personali che collettive, non siano altro che "personaggi", che potrebbero anche essere "scritti" in altro modo. Si passa dall'orizzonte della storia a quella delle "storie", dal documentale al narrativo. E a questo livello, il contesto cognitivo si intreccia con quello poetico-artistico. La dimensione "teatrale" dell'esistenza, singola e collettiva, ne relativizza l'importanza. Le identità sono personaggi di una recita – così le pensano le filosofie orientali – indipendentemente dal fatto che le abbia descritte un autore teatrale, ricostruite uno storico o tramandate un genitore.
Per questo motivo, l'approccio storico-documentale, che si concretizza nei saperi della storia, dell'archeologia o della narrazione letteraria-teatrale, può condurre a percepire la possibilità di andare "oltre l'identità" e quindi oltre la memoria. Si spalanca così la dimensione del "qui e ora", astorico e aprogettuale, e la prospettiva psicologica di uno spazio al di là del soggetto: la transpersonalità.

Contesto cognitivo "metafisico"

L'essere umano, praticamente da sempre, ha avuto l'inclinazione a formulare letture interpretative globali della realtà. L'ha fatto inizialmente elaborando cosmogonie e teogonie mitologiche e, successivamente, riformulandole in termini parzialmente logico-razionali. Si tratta della costruzione di quelle che vengono solitamente chiamate "filosofie" (il plurale è d'obbligo!) o "metafisiche".
Talvolta, assai sbrigativamente, si contrappongono queste costruzioni razionali filosofiche alle teorie scientifiche, senza rendersi conto, che spessissimo, queste ultime, non sono altro che "estrapolazioni", cioè spinte interpretative di dati, esperimenti, ecc. formulate in modo logico-razionale sulla base di precomprensioni, esattamente come accade per le metafisiche.
Il contesto metafisico spesso attinge dagli archetipi della prospettiva poetico-artistica e si nutre delle storie individuali e collettive, indagandone il "senso", o meglio, dato che nell'accadere storico c'è il puro essere, ricostruendo proiettivamente un senso possibile.
È un tratto cognitivo irrinunciabile per l'essere umano. Il tentativo di passare dal caos di una realtà esperita che è diacronica e intrecciata di storie, all'ordine di una visione d'insieme. Costruire modelli coerenti del reale, dando manifestazione al desiderio profondo di comprendere. Anche l'arte si spinge a questo, ma la prospettiva filosofica e cosmologica cercano di farlo con risorse prevalentemente razionali, cercando di "montare" modelli esplicativi le cui parti siano reciprocamente congruenti.
Questi modelli, quando hanno un'adeguata fortuna storica, si insinuano a tal punto nella visione del mondo dei singoli esseri umani, da non essere quasi più percepiti per quello che sono realmente, ossia delle costruzioni mentali, ma scambiati per prospettive "ovvie" e "naturali" da cui leggere la realtà. È avvenuto ad esempio con il platonismo, che ci ha abituati a ritenere ovvio il dualismo psiche/corpo, che ha dato sostanza a tutte le voci ascetiche per millenni, che ci ha suggerito l'esistenza di una realtà invisibile molto più attraente e definitiva di quella visibile.
È accaduto con l'aristotelismo, da cui tutti noi ignoriamo di essere "posseduti", con le onnipresenti categoria di forma, essenza, causa efficiente, ecc.; è accaduto con la scienza galileiana e newtoniana, che abbiamo "esportato" in ogni angolo della nostra comprensione del reale, compreso quelli dove proprio non funziona.

La cosa davvero affascinante e insieme destabilizzante, nelle costruzioni metafisiche, è proprio il fatto di elaborarne di nuove, capaci di guardare il mondo da punti di vista mai esplorati, di creare categorie originali, visioni capovolte. Si scopre così che anche le metafisiche, le filosofie, le cosmologie, nonostante tutta la loro seriosità teoretica e le forti esigenze razionali, altro non sono che storie e racconti, prospettive di lettura, archetipi che mettono in gioco facoltà diverse da quelle dell'approccio poetico-artistico o storico. Tant'è vero che, al confine fra questi tre mondi (metafisico, poetico e storico) stanno le grandi religioni, di cui gli esseri umani non sembrano poter fare a meno, proprio per la loro capacità di fornire coordinate di riferimento, in un mondo altrimenti fluido, "fuzzy".
Le grandi metafisiche, le estrapolazioni delle teorie scientifiche, le cosmologie e le religioni sono un po' l'esatto opposto dell'atteggiamento del "qui e ora"; esse cercano una rassicurante permanenza, una stabilità – umanamente più che comprensibile – in una realtà sfuggente, dinamica e spesso, almeno apparentemente, del tutto priva di senso.

Contesto cognitivo "logico-razionale"

Dai tempi della nascita della filosofia in Grecia, circola in Occidente uno strano pregiudizio, una precomprensione totalmente senza fondamento, che tuttavia ha trovato una fortuna immensa e ha finito con l'essere implicitamente accettata dall'élite culturale e da gran parte delle persone: questa precomprensione gratuita consiste nel ritenere che tutto ciò che viene creato o scoperto attraverso la ragione logica, il logos (o almeno così si crede), abbia un fondamento di verità molto più solido rispetto a ciò che viene creato, scoperto o esperito attraverso altre facoltà dell'essere umano, come l'istinto, l'affettività, ecc.
Ciò anche in forza del fatto che si ritiene che tutto ciò che è legato al logos sia "oggettivo" e quindi "vero", mentre ciò che è legato a facoltà come l'istinto o l'affettività sia "soggettivo" e quindi frutto di interesse personale, proiezione, attrazione senza controllo. In molti testi scolastici di filosofia, che servono appunto per costruire precomprensioni nelle menti dei giovani, si ripete che il passaggio "dal mythos al logos" va considerato un progresso dell'umanità nel suo complesso.
In tempi più recenti, si è ripetuto e raffinato ulteriormente questo atteggiamento, dando particolare enfasi a una particolare forma di logos, quella che si esprime nel pensiero cosiddetto "scientifico", che è diventato il feticcio fra tutti i possibili approcci dell'essere umano alla realtà.
Io non sono un detrattore del contesto cognitivo logico-razionale, come spesso accade tra chi si occupa di prospettive olistiche, perché ritengo che in esso vi sia una profonda saggezza e concordo pienamente con Goya nella consapevolezza che "il sonno della ragione evoca mostri". Ciò che mi interessa, però, è circoscrivere la portata di questo contesto cognitivo, di mostrarne la grandezza ed insieme i limiti.

Indubbiamente l'approccio logico-razionale alla realtà è un ottimo freno per le "bufale", quelle pseudo-verità assiomatiche, totalmente e gratuitamente inventate di cui è purtroppo pieno il mondo "new age" e olistico. La capacità "distruttiva" della ragione mi è ben nota; la sua abilità nel fare giustizia di preconcetti, luoghi comuni, banalità di origine storico-sociale, ecc. è, ai miei occhi, una vera benedizione.
Questo, tuttavia, non significa che l'approccio logico-razionale dia origine a un sapere vero e oggettivo, perché tutto ciò che sa fare il logos è ottenere coerenza rispetto a determinate regole deduttive. La logica è maestra in tutto ciò. Parte da assiomi stabiliti arbitrariamente, fissa altrettanto arbitrariamente le regole deduttive che saranno ammesse e da queste basi – totalmente inventate – inizia a dedurre tutto ciò che si può. Si tratta di un gioco formale, che non conduce a nessuna verità. Ed è questa, in fondo, la profonda onestà dell'approccio logico-formale, se ben compreso: non pretende di consegnare alcuna verità, ma soltanto di valutare la coerenza di ciò che viene dedotto da principi dati, stabiliti da chissà quale altro contesto cognitivo, ma non certo dal logos.
In questo la ragione logica è magistrale: nel costruire protocolli a partire da principi dati e accettati, nel trovare sviluppi coerenti di punti di vista, nel tracciare percorsi che conducano verso un obiettivo, dopo che quest'ultimo sia stato stabilito attraverso qualche altra prospettiva cognitiva.  
Proprio attraverso l'opera del logos, siamo giunti a comprendere che noi esseri umani non arriviamo mai alla "verità", ma semplicemente costruiamo modelli esplicativi della realtà che possono essere più o meno coerenti ed avere un maggiore o minore grado di accuratezza descrittiva e di funzionalità. Proprio il logos ci ha insegnato che noi non abitiamo mai davvero il mondo, ma soltanto le nostre rappresentazioni del mondo.

Il Contesto mistico

Tutti i grandi fautori del logos, da Platone a Gödel, passando per Ockham, Kant, Wittgenstein e molti altri, hanno indicato un confine oltre il quale il logos non può spingersi, per ragioni strutturali. Uno spazio dove qualunque eventuale "visione" non può essere "detta", non può essere ricondotta nell'ambito della verbalizzazione e quindi della concettualizzazione.
Mi piace chiamare questo spazio con il nome che usa Wittgenstein: il "mistico". L'ultimo contesto cognitivo a disposizione dell'essere umano.
Per esperienza personale so che le chiavi che aprono lo spazio del "mistico" non sono in nostro possesso; mi sono dedicato per decenni ad attività meditative al punto da imparare che non esiste alcuna pratica in grado di portare con certezza all'interno di questo "Oltre". Come insegna una nota storiella zen, le pratiche servono soltanto a farci restare svegli, in modo tale che, se e quando l'Oltre si mostra, possiamo incontrarlo e riconoscerlo.
Lo spazio cognitivo del "mistico" accade e, personalmente, non mi è chiaro quando e perché. Non so neppure se accada per tutti. Forse sì. Forse molti non sono abbastanza attenti per coglierlo.
Quando si entra in questo spazio ci sono comprensioni, insights, evidenze extralogiche ed extraemotive che possono avere una portata orientativa enorme all'interno della vita, ma sono e restano totalmente soggettive e non condivisibili, a meno di trovare un'altra persona che abbia parimenti frequentato questo "luogo-non-luogo".
L'Oltre non può essere condiviso. Chi non l'ha incontrato non può capire e chi l'ha incontrato già sa e nessuna ulteriore parola è necessaria. Ha il carattere dell'esperienza, ma diversamente dal contesto pragmatico-esperienziale, non accade su base sensoriale e mentre l'esperienza concreta dà luogo alle culture popolari, tutte diverse fra loro, l'esperienza mistica appare invece trasversalmente comune a culture diversissime e, in un certo senso, sovraculturale. In effetti il contesto cognitivo mistico, pur essendo strettamente personale, è un tratto che ha storicamente accomunato tantissime donne e uomini di tutte le civiltà e di tutte le epoche storiche.
Le evidenze soggettive che il contesto mistico produce sono di una forza orientativa immensa, possono diventare fondamenta e obiettivi indiscussi. Resta però sempre il dubbio che non costituiscano la porta d'accesso ad un effettivo ulteriore livello della realtà, ma siano semplicemente la proiezione di bisogni e desideri inconsci. Il mistico non dà garanzia. Parafrasando Platone, mi verrebbe da dire che è un “bel rischio” o, come direbbe Pascal, una scommessa.
Il contesto cognitivo mistico, quasi chiudendo un magico cerchio, ci ricollega alla dimensione esperienziale. Anch'esso è “stupore”, non tanto e non solo davanti alla vita, ma alle dimensioni più nascoste che essa dischiude; è la sorpresa di scoprire, come scriveva Eraclito di Efeso, che “l'armonia invisibile è superiore a quella visibile”.
Come nell'esperienza pragmatica, anche in quella mistica l'essenziale è il silenzio, la dimensione dell'Osservatore puro, l'essere totalmente presenti al momento.

Conclusioni provvisorie

Nessuno di questi contesti cognitivi può dirsi esaustivo; nessuno può dirsi “vero”, nel senso che dischiuda con certezza la “realtà” nella sua essenza. Probabilmente ha ragione Kant: la “realtà in sé” non è attingibile per la mente umana. In tutti questi contesti può nascondersi un tratto proiettivo individuale, legato al nostro carattere, alle aspettative che abbiamo, alle prospettive esistenziali che ci immaginiamo.
Nella nostra vita concreta noi utilizziamo continuamente un mix di questi contesti cognitivi, mutandoli a seconda della situazione, del nostro stato emotivo, ecc. (metacriterio emozionale); spesso ne privilegiamo qualcuno in particolare, a causa della nostra storia personale oppure a per via di pressioni storiche e culturali o ambientali (metacriterio storico), o semplicemente perché in una determinata situazione un certo contesto cognitivo sembra più funzionale o disfunzionale (metacriterio pragmatico).
La posizione gnoseologica dell'antropogia olistica e del BTC Method si sostanzia nella consapevolezza che tutti i contesti cognitivi descritti debbano essere presenti nel percorso evolutivo dell'essere umano, perché ciascuno di essi dischiude un orizzonte di comprensione peculiare, che non può essere surrogato da altri. Un approccio conoscitivo multidimensionale è l'unico adeguato ad una realtà multidimensionale. Saperi esperienziali, artistici, storici, narrativi, filosofici, logico-razionali e mistici sono l'attrezzatura indispensabile per attraversare l'esistenza con la consapevolezza che ci è concessa – poca o tanta che sia – senza risposte definitive, ma con la duttilità di vedere sempre nuove prospettive di lettura.



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