Essere umano e valori nella filosofia antica
Materiali
Come
sono evolute le “immagini dell’uomo” nell’antico mondo greco?
Quali i valori che ne hanno sostenuto la vita? Indagare questi
interrogativi risulta particolarmente affascinante proprio in
un’epoca, come la nostra, in cui si sente spesso lamentare la
mancanza di
valori-guida capaci di indirizzare e dare senso -
almeno parziale
- all’agire dell’uomo.
L'indagine ci porterà a
vedere come
l’idea dell’uomo e di ciò che determina la “pienezza” della
sua vita
siano evolute profondamente dal mondo omerico sino a
quello tardo
ellenistico, tracciando in ultima analisi il profilo di un essere
umano che si
sente chiamato
ad andare oltre il mondo delle apparenze per cercare
una più
profonda verità “al di là delle cose”.
1. I valori dell’uomo omerico
I
primi testi utili per scandagliare l’immagine greca dell’uomo
sono senza dubbio i poemi
omerici, gigantesca
epopea in cui uomini e dei interagiscono delineando, in un grande
affresco, una complessa visione del mondo che l’essere umano sembra
più subire che comprendere.
Chiediamoci,
allora: chi è
l’uomo omerico?
Quali sono il suo destino ed i valori in cui crede?
Innanzi
tutto i poemi omerici ignorano
la distinzione tra una dimensione materiale ed una immateriale della
realtà, e dunque
in essi non si riscontra la successiva concezione dell’uomo -
divenuta poi classica in occidente - concepito come unione di corpo
ed anima. Come notano illustri interpreti (POHLENZ,
DODDS), il termine
“psyché”,
solitamente
tradotto con “anima” nei poemi omerici sta ad indicare solamente
la parte dell’uomo che discende nell’Ade alla sua morte. In un
certo senso è come se l’anima non avesse alcun ruolo nell’uomo
vivente, tant’è vero che vengono piuttosto indicate e quasi
immaginate concrete le sue funzioni: l’affetto (thymós,
spesso inteso anche
con il significato di coraggio, ira, sentimento) e la capacità
intellettiva (noós).
Egualmente
problematico il concetto di “corpo”; infatti il termine che
solitamente in greco lo designa, cioè sóma,
viene usato nei
poemi omerici per indicare il cadavere, mentre quando deve riferirsi
al corpo di un uomo vivente il testo o utilizza il nome dei singoli
organi ed arti, oppure fa uso di un’espressione metonimica: “ta
méle”, che
potrebbe tradursi con “le parti”.
L’uomo
omerico, dunque,
indifferenziato nelle sue componenti fisiche e mentali, rientra
interamente nell’orizzonte della natura
(la phýsis) a
cui appartiene anche ogni altro essere esistente, compresi gli dei.
Questi ultimi si presentano piuttosto come la personificazione di
tutto quanto è insolito ed incomprensibile nella natura. Non
appaiono qualitativamente diversi dagli uomini, quanto piuttosto
superiori quantitativamente e non soggetti alla morte. In fondo,
proprio e solo la mortalità è ciò che rende impossibile all’uomo
emulare gli dei. Questi ultimi non sembrano neppure legati alla
dimensione della moralità: non dispensano né premi né castighi per
eventuali meriti o colpe dell’uomo, ma piuttosto per simpatie o
antipatie personali e neppure sembrano in grado di determinare gli
eventi che sono piuttosto regolati dal fato,
il destino personale (Moira)
che conduce
inesorabilmente ogni essere vivente verso il suo esito finale.
Chiediamoci
allora: per l’uomo
omerico, che sembra
ignorare la dimensione della colpa, che vive la propria mortalità
come la frustrazione di qualunque progetto e si percepisce in balìa
di un fato inesorabile, quali
valori potranno esistere? Per cosa varrà la pena di vivere? L’unico
criterio di valore sembra essere quello dell’onore
pubblico, della
gloria conquistata sul campo di battaglia, magari proprio lottando
inutilmente contro un destino comunque avverso e lucidamente
accettato (come, ad esempio, nel caso di Ettore o di Achille,
entrambi consapevoli della propria morte imminente ed inevitabile).
L’arethé,
cioè la virtù in
combattimento e l’eroismo conducono alla pubblica approvazione
(démou phàtis);
come ha sostenuto
il DODDS,
facendo sue le tesi di alcuni antropologi, la
Grecia omerica è
una civiltà della vergogna e non della colpa
e vive dunque un’etica dell’esteriorità, in cui ciò che conta è
solo ciò che appare, il risultato e non l’intenzione.
È
vero che talvolta sembrano fare capolino anche alcune altre
dimensioni valoriali, quale, ad esempio, la pietas
per i morti e verso
gli anziani (come ad esempio nell’episodio del vecchio Priamo
che si reca alla
tenda di Achille per reclamare il cadavere del figlio Ettore), ma il
vero polo di aggregazione del racconto sembra comunque l’esaltazione
di un’aristocrazia guerriera.
Nel
passo che segue, tratto dal libro VII
dell’Iliade,
il duello di Ettore
con Aiace diviene occasione per un’autoglorificazione che i due
eroi fanno l’uno dell’altro.
Cosi
dicevano, e Aiace s’armava di bronzo accecante;
poi
quand’ebbe indossato tutte l’armi sul corpo,
balzò,
come s’avventa il gigantesco Ares,
che muove a
guerra fra gli uomini, quanti il Cronide
getta a
lottare in lotta furiosa, che il cuore divora.
Cosi mosse
Aiace gigante, la rocca degli Achei,
ghignando
con viso tremendo; e, sotto, i
suoi piedi
andavano a
gran passi, l’asta ombra lunga scrollava.
Gli Argivi
godevano grandemente a vederlo,
ma forte
tremito prese le membra a tutti i Troiani,
balzò nel
petto il cuore a Ettore stesso; ma non poteva nascondersi più né
tirarsi
indietro,
tra la folla, lui che sfidò la battaglia.
Aiace
s’avvicinava, portando lo scudo come
una torre,
bronzeo,
fatto col cuoio di sette buoi; Tichio sudò a fabbricarlo, il
migliore tagliatore di cuoio, che ad Ile abitava; questi gli aveva
fatto lo scudo lucente, con sette pelli di tori ben nutriti, ottava
vi stese una piastra di bronzo.
E Aiace
Telamonio reggendolo avanti al petto,
s’arrestò
vicinissimo a Ettore, urlò minaccioso:
«Ettore, or
molto bene saprai, da solo a solo,
quali
prodi vi sono ancora fra i
Danai,
anche
all’infuori d’Achille sgominatore, cuor di leone,
Egli
là fra le navi curve che van pel mare siede ozioso, irato contro
Agamennone pastore di genti; ma anche noi siamo in grado di misurarci
con te, e in molti. Comincia dunque il duello e la lotta»
Ettore
grande, elmo lucente, rispose:
«Aiace,
divino figlio di Telamone, capo d’eserciti,
non volermi
tentare, come un gracile bimbo,
o
come femminuccia
che non sa nulla di guerra.
Conosco le
battaglie e le carneficine,
e
so muovere
a destra, so
muovere a manca
la pelle
disseccata
di bue, che m’è scudo a combattere;
so
dei carri veloci
far sorgere il tumulto,
so
danzare in
duello la danza del crudo Ares,
Avanti! Non
voglio colpire te, che sei tanto forte,
di sorpresa,
spiando, ma apertamente, se posso».
Diceva e
bilanciandola scagliò l’asta ombra lunga,
e colpi il
forte scudo d’Aiace, sette pelli, sulla piastra di bronzo, che
ottava sopra si stende.
Sei strati
attraversò lacerando il bronzo inflessibile,
ma si fermò
nella settima pelle. Allora, secondo,
Aiace divino
gettò l’asta ombra lunga,
colpi lo
scudo rotondo del figlio di Priamo:
passò
l’asta greve traverso allo scudo lucente,
nella
corazza lavorata s’infisse,
e lungo il
fianco, diritta, stracciò la tunica
l’asta; ma
quello, chinandosi, sfuggi la Moira nera,
Strappando
insieme entrambi con la mano l’aste lunghe
s’affrontarono,
come leoni divoratori di carne
o
cinghiali
selvaggi, di cui la forza è imbattibile
Di nuovo il
figlio di Priamo colpi in mezzo lo scudo con l’asta,
ma il bronzo
non penetrò, gli si piegò la punta.
Aiace con un
balzo colpi lo scudo, e passò
l’asta, e
rintuzzò l’ardore d’Ettore,
giunse al
collo, tagliente, ne sorti nero sangue.
Non per
questo lasciò la lotta Ettore elmo lucente,
ma
retrocesse e prese con mano gagliarda un macigno,
che
stava nella piana, grande, scabro, nero;
colpi con
esso il forte scudo d’Aiace, sette pelli,
nel suo
concavo centro, rintronò tutto il bronzo,
Aiace
allora, prendendo un masso molto più grande,
lo
lanciò roteandolo, vi applicò forza immensa,
e fracassò
lo scudo con il masso molare,
gli
squilibrò i ginocchi; egli cadde giù, steso,
schiacciato
sotto lo scudo; ma Apollo lo rialzò.
E ormai da
vicino si ferivan di spada;
se
gli araldi, di Zeus messaggeri e degli uomini,
uno dei
Teucri, l’altro dei Danai chitoni di bronzo,
non fossero
giunti, Ideo e Taltibio, entrambi sapienti.
Tesero in
mezzo ai due gli scettri e disse parole
l’araldo
Ideo, che saggio consiglio sapeva:
«Cari
figli, non lottate, non combattete più oltre,
entrambi
v’ama Zeus che le nubi raduna,
entrambi
siete guerrieri, e noi lo vedemmo,
ma già
scende la notte: buono è obbedire alla notte».
E Aiace
Telamonio rispondendogli disse:
«Ideo,
Ettore voi dovete invitare a parlare così:
egli
ha sfidato tutti i
campioni a
combattere.
Cominci e
dopo anch’io obbedirò come lui».
Allora parlò
Ettore grande, elmo lucente:
«Aiace, un
Dio t’ha dato forza e grandezza
e sapienza,
con l’asta sei il primo degli Achei;
mettiamo
fine adesso alla battaglia e alla lotta
per oggi;
poi combatteremo ancora, fin che un dio
ci
divida e conceda agli uni o
agli altri
vittoria;
ormai scende
la notte, buono è obbedire alla notte,
E dunque tu
rallegra presso le navi gli Achei,
soprattutto
gli amici e i compagni, che hai;
e
io nella
grande città del sire Priamo rallegrerà i Troiani e le Troiane
lunghi pepli,
che a render
grazie per me nel tempio dei numi entreranno,
E diamo
entrambi nobili doni uno all’altro,
che possa
dir qualcuno fra i Troiani e gli Achei:
“Han
lottato quei due nella lotta che il cuore divora,
ma
si son separati riconciliati e amici”».
Parlando
cosi gli diede la spada a borchie d’argento,
col fodero
gliela donò e la cinghia tagliata con arte;
Aiace gli
diede la fascia splendente di porpora.
Poi,
separandosi, uno andò fra l’esercito degli Achei,
l’altro
mosse verso la folla dei Teucri.
(Iliade,
vv.
206-307 trad.
R. Calzecchi Onesti).
Con
l’Odissea la
dimensione dei valori rimane sostanzialmente la stessa, benché sia
presente anche una nuova modalità per ottenere l’onore:
l’intelligenza
concreta. Ulisse,
l’eroe prudente e furbo, riesce a superare difficili prove grazie
alla sua proverbiale capacità a trarsi d’impaccio che appunto ne
consacrerà la gloria presso i posteri.
Il passo che
segue è quello in cui Ulisse, ingannando il ciclope grazie allo
stratagemma del falso nome, riesce a farla franca dopo averlo
addormentato ed accecato: la vittoria dell’astuzia sulla forza
bruta.
Allora
parlai al Ciclope, facendomi avanti con una ciotola di nero vino:
«Prendi, Ciclope, bevi il vino, dopo aver divorato carne umana,
perché tu provi che meraviglia la mia nave imbarcava, A te proprio
l’avevo portato in offerta, se per pietà mi lasciassi tornare a
casa; ma la tua è una insopportabile furia. Sciagurato, come potrà
in avvenire venirti a trovare uno degli uomini, se non agisci secondo
giustizia?»
Cosi dicevo;
egli prese la ciotola e bevve tutto d’un flato; e intensamente gli
piacque la dolce bevanda, e me ne chiedeva di nuovo. «Dammene
ancora, da bravo, e dimmi il tuo nome subito adesso, perché ti
faccia il dono ospitale che ti renda felice. Certo anche ai Ciclopi
la fertile terra produce vino di grappoli grossi, e per loro li
gonfia la Pioggia di Zeus. Ma questo è sorgente di nettare e
ambrosia».
Cosi diceva,
e di nuovo gli porsi il vino color della fiamma. Tre volte gliene
diedi, tre volte tracannò, quella bestia. Ma quando il vino gli fu
arrivato dentro il fegato, ecco che gli parlai con parole di miele:
«Ciclope, domandi il mio nome glorioso; sicuro, te lo dirò, Ma
dammi il dono ospitale, come promesso. Nessuno, è il mio nome;
Nessuno mi chiamano il padre e la madre, e così tutti gli amici».
Cosi
dicevo, e subito mi rispondeva con cuore feroce: «Nessuno, lo
mangerò per
ultimo, dopo i suoi compagni, gli altri prima: questo sarà il mio
dono ospitale».
Disse
e arrovesciato cadde supino, e subito giacque per terra, piegata da
un lato la grossa nuca: lo aveva vinto il sonno che doma tutto. Dalla
gola gli uscivano vino e pezzi di carne di uomo: sborniato, vomitava
e ruttava. Allora spinsi il palo sotto la cenere fitta, finché fu
rovente; e intanto facevo coraggio ai compagni, per paura che alcuno
mi si tirasse indietro atterrito. Poi, quando nella brace il palo
d’oleastro stava già per prendere fuoco, pur verde com’era, e fu
tutto rovente per bene, allora in fretta lo portavo via dal fuoco più
vicino al Ciclope; intorno avevo i compagni. Certo un dio ci ispirò
un grande coraggio. Sollevarono quelli il palo di olivo, puntuto alla
cima, e glielo conficcarono nell’occhio mentre io, premendo di
sopra, lo facevo
girare. Come un carpentiere trapana una tavola di nave, ed altri
sotto fanno girare il trapano con una cinghia, di cui reggono i capi
da una pane e dall’altra, e il trapano continuamente trivella, cosi
giravamo il palo rovente, ficcato nell’occhio del Ciclope: caldo
sangue scorreva d’intorno.
La
vampata gli bruciò tutt’intorno palpebre e ciglia; l’occhio ne
ardeva e le radici friggevano al fuoco. Come quando un fabbro immerge
nell’acqua fredda una grande ascia o
una scure, che
sibilano stridule, per temperar/e, ed è questo che rinnova la forza
del ferro, cosi crepitava l’occhio del mostro intorno al palo di
oleastro. Gridò terribilmente il Ciclope, intorno urlò la caverna;
noi atterriti arretrammo lontano. Si strappò dall’occhio il
tizzone tutto rosso di sangue, e lo
gettò lontano
brancicando con le mani furiose. E invocava intanto a gran voce i
Ciclopi che nei dintorni vivevano, in caverne sparse sulle cime
ventose. Quelli, man mano che udivano gli urli, accorrevano, chi di
qua, chi di là, e, fermandosi davanti alla grotta, domandavano che
lo facesse soffrire: «Cosa mai, Polifemo, ti strazia? che hai
gridato in tal modo nella notte sacra, togliendoci il sonno? Qualche
mortale con la violenza ti ruba il bestiame? Qualcuno ti ammazza con
la forza o la
frode?»
E a loro
dalla caverna rispose Polifemo fortissimo: «Nessuno, amici, mi
uccide, con la frode e non già con la forza». Quelli rispondevano
allora con alate parole: «Dunque, se proprio nessuno ti assale di
forza, e sei solo, non c’è scampo dalla malattia che il grande
Zeus t’ha mandato; prega dunque Poseidone signore, tuo padre».
Cosi dicendo andarono via; rideva il mio cuore del fatto che li
avevano beffati un nome e una trovata perfetta.
(Odissea,
vv. 345-414 trad.
G. Gaetaniello)
2. L’avvento della filosofia: il lógos come valore
Con
la nascita della filosofia, benché l’orizzonte culturale di fondo
rimanga sostanzialmente analogo, nasce
un nuovo modello possibile di essere umano: il saggio,
ovvero colui che scandagliando la legge profonda che governa le cose
sa scoprirne l’armonia segreta nascosta alla vista dei più.
Una
prima espressione di questo nuovo orizzonte di pensiero la troviamo
nei frammenti di ERACLITO
DI EFESO - filosofo
probabilmente legato all’orfismo, così come i pensatori della
scuola di Mileto -
che già con il suo stile difficile e quasi oracolare (fu
soprannominato “skoteinós”,
ovvero l’oscuro)
sembra incarnare questa nuova antropologia elitaria.
Ho riunito con
un ordine arbitrario alcuni frammenti dell’Efesio, per evidenziarne
i temi principali:
- il forte senso della caducità della vita e la condanna dell’etica elementare propria del popolo, contraddistinta dalla ricerca del piacere sensibile (sezione I);
- la sottolineatura di un possibile “secondo livello” di eticità, caratterizzato dall’arethé omerica (sezione II);
- la delineazione della saggezza come virtù propria dell’uomo e la figura del sapiente qualitativamente superiore al volgo (sezione III);
- l’apertura verso i misteri dell’orfismo come definitivo svelamento dell’armonia che regola i cicli delle morti e delle rinascite (sezione IV)
I numeri
all’inizio di ogni frammento corrispondono all’ordine della
raccolta di Diels-Kranz.
SEZIONE I
4
[«Journal of Philology», IX, p. 230]. ALBERT
MAGN. de veget.
VI 401
p. 545. Eraclito
disse che:
“se la
felicità s’identifica con i piaceri del corpo, diremmo felici i
buoi, quando trovano cicerchie da mangiare “.
9
[51]. ARISTOT. eth.
Nic. K
5. 1176a 7. Altro
è il piacere del cavallo, altro quello del cane, altro quello
dell’uomo; come dice Eraclito, gli asini sceglierebbero piuttosto
lo strame che l’oro;
per gli
asini infatti esso è un cibo più piacevole dell’oro.
18
[7]. CLEM ALEX. strom.
II
17 [II 121, 24].
Se non
spera, non troverà l’insperabile, perché è introvabile e
inaccessibile [cfr, B 27].
20
[86]. CLEM. ALEX. strom.
III
14 [II 201,23].
Eraclito
sembra dunque considerare un male la nascita quando afferma:
“Una
volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte -
o piuttosto
riposare - e
lasciano figli, in modo che altri destini di morte si compiano”.
SEZIONE II
24
[102]. CLEM ALEX. strom.
IV
16
[II 255,30].
Dèi ed
uomini onorano coloro che sono morti in guerra,
25
[101]. CLEM ALEX, strom.
IV
50 [II 271, 3].
Maggiori
destini di morte ottengono infatti maggiori ricompense.
29
[111 b], CLEM ALEX. strom.
V
60
[II 366,11].
Rispetto a
tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria
eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a
saziarsi come bestie.
SEZIONE III
35
[49].
CLEM. ALEX. strom.
V
141 [II 421,4],
È
necessario infatti, secondo Eraclito, che coloro che amano la
sapienza [i filosofi] siano certamente esperti di molte cose,
44
[100]. DIOG, LAERT. IX 2.
È
necessario che il popolo combatta in difesa della legge come in
difesa delle mura.
46
[132]. DIOG. LAERT. IX 7.
Diceva che
l’opinione è un male caduco e che la vista inganna,
49
[113]. GALEN. de
dign. puls. II
773 Kuhn [SVMMACH. ep.
IX 115,
THEODOR. PRODR. ep.
p.
20].
Uno è per
me diecimila, se è il migliore
73
[94], MARC. ANTON. IV
46.
Non bisogna
agire e parlare come se si stesse dormendo; anche dormendo, infatti,
crediamo di agire e di parlare,
102
[61]. PORPHIR. quaest.
Hom. ad IL IV
4 [I 69, 6].
Per la
divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece
alcune cose ritengono ingiuste ed altre giuste,
110
[104 a]. STOB. fior.
III 1, 176.
Che si
avveri tutto quanto desiderano non è certo meglio per gli uomini.
111
[104 b]. STOB.
fior. III
1, 177.
La malattia
rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il
riposo,
112
[107]. STOB. fior.
III 1, 178. Massima
virtù è esser saggi, e la sapienza consiste nel dire e fare cose
vere, comprendendole secondo la loro natura,
SEZIONE IV
27
[122]. CLEM ALEX. strom.
IV
146 [II 312,15].
Per
gli uomini che
son morti sono pronte cose che essi non sperano né immaginano.
18
[7]. CLEM. ALEX, strom.
II
17 [II 121, 24].
Se non
spera, non troverà l’insperabile, perché è introvabile e
inaccessibile [cfr. B 27].
(In
I Presocratici a
cura di A. Lami, Biblioteca Universale Rizzoli)
Accenti
sostanzialmente simili si trovano indirettamente anche presso gli
Eleati che pur non trattandone esplicitamente, lasciano intendere la
loro fiducia nel valore del lógos. La conoscenza della verità rende
l’uomo partecipe dell’armonia profonda che governa il cosmo.
Così, PLUTARCO,
trattando di Empedocle, ricorda che l’Agrigentino sosteneva come:
“[Il discorso] che attraverso la filosofia finisce nella virtù
rende sempre l’uomo armonico con se stesso, irreprensibile a se
stesso e colmo di pace e di amabilità verso se stesso:
Né
nelle sue membra vi è
la discordia né
la lotta che consuma”.
3. la crisi della sofistica: l’uomo al centro della realtà
La
sofistica costituisce un primo grave momento
di crisi nella
cultura ellenica: molte certezze tradizionali divengono dubbie e
questo sia a causa di alcune contingenze storiche, sia per il
maturare di una nuova consapevolezza filosofica.
Siamo
nel V
secolo a.C ed Atene
ha superato
vittoriosamente lo scontro con i Persiani, avviandosi ad acquisire il
ruolo di potenza
egemone di tutto il Peloponneso. La
crescente forza commerciale della polis conduce alla ribalta una
nuova classe sociale, quella dei commercianti, forte della propria
ricchezza mobile, ed in antagonismo con i vecchi ceti aristocratici.
La vita politica si apre a nuovi soggetti ed i traffici commerciali
mettono a contatto con altre civiltà e diversi sistemi di valori.
L’uomo
greco, che fino ad
ora è rimasto completamente calato nell’orizzonte della phýsis,
scopre il mondo della cultura, dei
fenomeni linguistici, delle convenzioni morali e giuridiche.
Contemporaneamente,
sul versante filosofico, si è andata consolidando una certa sfiducia
nelle possibilità del lógos di penetrare la natura e le leggi che
la regolano: la grande alternativa essere-divenire, il problematico
monismo di MELISSO,
le provocatorie dimostrazioni zenoniane circa l’impossibilità
della molteplicità e del movimento, insieme alle aporie dei
cosiddetti “pluralisti”
(EMPEDOCLE,
ANASSAGORA,
DEMOCRITO)
che avevano inutilmente cercato di conciliare l’orizzonte
dell’essere con quello del divenire, fanno venire il sospetto che
l’indagine cosmologica degli antichi filosofi ecceda le possibilità
della ragione umana.
Così, l’uomo,
incapace di capire razionalmente il mondo, tende a rinchiudersi nel
“suo” mondo, di cui può vantare a buon diritto di essere
criterio di valore.
Espressione
più famosa di questa nuova mentalità è probabilmente PROTAGORA,
che, in un suo famoso frammento, citato da SESTO
EMPIRICO, afferma la
sua teoria
dell’homo-mensura:
“Alcuni
compresero anche Protagora di Abdera nella schiera di quei filosofi
che aboliscono una norma di giudizio, per il fatto che afferma che
tutte le partenze e opinioni son vere, e che la verità è tale
relativamente a qualcosa, per ciò che tutto quel che appare o
è opinato da
uno, esiste nell’atto stesso come relativo a lui. Appunto egli
comincia il suoi Discorsi
sovvertitori proclamando:
Di tutte le
cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono,
di quelle
che non sono, per ciò che non sono.”
Il mito che può
essere utilizzato per parlare del nuovo ruolo dell’uomo può allora
giustamente essere quello di Prometeo, simbolo di una umanità che in
un certo senso sfida gli dei appropriandosi della loro capacità di
giudizio; un essere umano in evoluzione, chiamato ad una consapevole
socialità che lo distingue dagli animali.
Ecco
perché PLATONE,
nel proprio dialogo intitolato Protagora,
attribuisce al
filosofo di Abdera, con un tipico processo di imitazione, proprio il
mito di Prometeo.
Si
apre tuttavia un problema grave: la
centralità dell’uomo significa forse relativismo?
Si dovrà dunque rinunciare ad una dimensione oggettiva della verità
ed alla ricerca di valori universalmente accettabili?
Sono ancora
possibili scienza ed etica?
4. Socrate: la vita come missione e la virtù come scienza
Un
primo tentativo di rispondere a questi quesiti viene dalla figura di
SOCRATE
Egli, facendo proprio il metodo sofistico della discussione dialogata
e delle antinomie logiche, testimonia però anche la sua “fede”
nell’esistenza di una verità
che, pur con fatica, si lasci trovare. Una verità che non riguarda
il cosmo, ma l’uomo, il cui compito fondamentale diviene dunque:
“conosci te
stesso”.
La
riflessione sul destino dell’uomo ed i valori etici è dunque
centrale nel pensiero socratico, ed egli interpreta la propria vita
come una missione affidatagli da un dàimon
che lo spinge alla
ricerca della verità, condivisa con i propri amici-discepoli. In
tale ricerca consiste appunto la virtù che per SOCRATE
coincide con la sapienza. Inaugurando la dottrina
dell’intellettualismo
etico egli sostiene
che il vero ed il bene, una volta scorti, non possono non essere
oggetto di scelta. Questa fedeltà a ciò che è giusto e vero deve
costituire la ragione profonda della vita umana e per essa è
necessario essere pronti a pagare.
Nel
passo che segue, tratto dall’Apologia
di Socrate,
scritta da PLATONE,
SOCRATE,
durante il processo, offre una pubblica e solenne testimonianza di
questo suo convincimento.
A
questo punto, o
Ateniesi, io
credo di non avere bisogno più oltre per dimostrare che l’accusa
di Melèto è del tutto infondata: le ragioni da me addotte penso che
siano più che sufficienti, E voi sapete bene, per averlo io dianzi
ricordato, quanto odio ed inimicizia tale accusa mi ha procurato. E
quest’odio mi perderà, se pur mi potrà perdere; non certo Melèto
o Anita,
ma la calunnia e la malvagità dei molti, che hanno già perduto, e
perderanno ancora, altri valenti uomini; nè sarò certo io l’ultimo,
Se
a questo punto qualcuno mi dicesse: -
Ma non ti
vergogni, o
Socrate,
d’esserti dato un’occupazione tale per la quale ora ti sei messo
a rischio di morire? -
io così
risponderei a buon diritto: -
Hai torto,
amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto
la vita e la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare
se ciò che fa sia giusto o
ingiusto e se si
comporta da uomo onesto o
da malvagio.
Secondo il tuo
ragionamento, sarebbero da stimare poco quei semidei e tutti gli
altri che sono morti davanti a Troia, e particolarmente il figlio di
Tetide, il quale preferì affrontare la morte piuttosto che il
disonore.
Quando
infatti la madre, che era Dea, disse press’a poco così a lui che
ardeva di uccidere Ettore: «O
figlio, se tu
vendicherai la morte del tuo amico Patroclo e ucciderai Ettore, anche
tu morrai dopo di lui, poiché tale è il corso del destino», egli
tenne in così poco conto il pericolo e la morte, piuttosto che
vivere da vile e non vendicare l’amico, che rispose così: «Possa
io subito morire dopo avere inflitto il castigo al colpevole, anziché
rimanere qui a ludibrio presso le ricurve navi, inutile peso alla
terra». Credi tu forse, o
amico, che egli
si sia curato della morte e del pericolo?
Questa
è la verità, o
Ateniesi:
ovunque un uomo si sia posto, giudicando questo il suo meglio, o
dovunque sia
stato posto da colui che lo comanda, ivi egli deve restare, qualunque
sia il pericolo da affrontare, non tenendo in alcun conto né la
morte né altro in confronto della vergogna.
Ed
io sarei stato ben colpevole, o
Ateniesi, se a
Potidea, ad Anfipoli, a Delio, non avessi affrontato la morte e non
fossi rimasto là dove i comandanti da voi scelti mi avevano ordinato
di combattere. Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di
combattimento, così almeno io credo di dovere interpretare il suo
volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando,
esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per
paura della morte o
d’altro,
disertassi il campo, Allora sì che mi si dovrebbe tradurre davanti
ai giudici per non avere creduto negli Dei, disubbidendo all’oracolo,
temendo la morte e reputandomi sapiente senza esserlo, Giacché, o
Ateniesi, il
temere la morte altro non è che parere sapienti senza esserlo, cioè
a dire credere di sapere ciò che si ignora; poiché nessuno sa se la
morte, che l’uomo teme come se conoscesse già che è il maggiore
di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non è
la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di
sapere ciò che non si
sa?
Ed
io, o Ateniesi,
proprio in questo forse mi differenzio dalla più parte degli uomini,
e se c’è cosa per la quale io affermo di essere più sapiente di
ogni altro è questa: che così come non so
nulla di ciò
che ci attende nell’Ade, così anche credo di non saperne. Ma una
cosa so di
certo: che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore,
sia esso Dio o
uomo, è cosa
cattiva e
vergognosa,
Giammai
dunque io temerò né fuggirò quello che non so
se sia un bene,
ma piuttosto il male che so
essere tale.
E
se voi ora mi assolveste, non prestando fede alle accuse di Anita, il
quale anzi ha detto che bisognava che Socrate non comparisse affatto
davanti ai giudici o,
se vi fosse
comparso, era necessario pronunziare una condanna a morte perché
diversamente i vostri figli, seguendo gli insegnamenti di Socrate, si
sarebbero
corrotti totalmente, se voi dunque mi assolveste dicendomi così: -
Sacra te, noi
non vogliamo dare retta ad Anita; ti assolviamo, ma ad una
condizione: che tu non abbia a continuare nella tua ricerca, né a
dedicarti più oltre alla filosofia; se ti coglieremo ancora, morrai,
- ebbene,
o Ateniesi,
se per mandarmi assolto mi poneste questa condizione, io allora così
vi risponderei: -
O Ateniesi, io
ho per voi venerazione e affetto, ma debbo obbedire a Dio piuttosto
che a voi; e finché avrò un soffio di vita e le forze me lo
concederanno, non cesserò di filosofare, di esortarvi e di ammonire
chiunque di voi mi capiterà.
E
così io parlerò a lui come è mio costume e gli dirò: -
O mio ottimo
amico, tu che sei Ateniese, cittadino d’una città che è la più
grande e la più famosa d’ogni altra per la sua scienza e per la
sua potenza, non ti vergogni, tu che ti prendi tanto cura delle tue
ricchezze perché si moltiplichino, della tua reputazione e del tuo
onore, di non darti affatto pensiero della sapienza, della verità e
dell’anima perché questa divenga quanto più può migliore? -
E se qualcuno mi
oppone che egli ne ha ben cura, non lo
lascerà andare
così presto, né me n’andrà via, ma lo interrogherò, lo
esaminerò, lo
confuterò, e se mi accorgerò che egli non possiede affatto la
virtù, come dice, lo riprenderò perché ha a vile le cose di
maggior conto e apprezza invece le più spregevoli.
Così
io continuerò a comportarmi con chiunque mi avvenga di incontrarmi,
giovane o
vecchio,
cittadino o
forestiero, ma
più con voi miei concittadini che mi siete più vicini per nascita.
Giacché, sappiatelo bene, è questo che mi ha comandato Dio, e credo
che nessun bene maggiore abbia la vostra città che questo mio zelo a
servire Dio, sollecitando voi, giovani e vecchi, a non prendervi cura
né del corpo né delle ricchezze più che dell’anima perché
divenga quanto migliore possibile, giacché non dalla ricchezza
deriva la virtù, ma dalla virtù la ricchezza e ogni altro bene ai
cittadini e alla città. E se dicendo questo io corrompo i giovani,
allora diciamo pure che il mio parlare è nocivo, ma nessuno affermi
che io insegno cose diverse, poiché affermerebbe il falso.
Ascoltatemi
dunque bene, o
Ateniesi: diate
retta ad Anita o
no, mi
assolviate o no,
state pur certi che io non muterò la mia condotta, dovessi morire
molte volte.
(Platone,
Apologia di Socrate,
XVIXVII,
a cura di V.
Stazzone, la
Scuola, Brescia)
5. Platone: la scoperta del sovrasensibile e la nuova tavola dei valori
Nel
pensiero di PLATONE,
grazie a quella che egli definisce la “seconda
navigazione”, fa
capolino l’intuizione di una realtà che vada oltre l’ambito del
materiale e del visibile, Il mondo
reale viene dunque
considerato solamente un’apparenza,
una specie di “segno” che rimanda alla “vera” realtà, quella
spirituale del mondo delle idee che ne costituisce l’intima
essenza.
La
nascita della metafisica e l’intuizione dell’esistenza del
sovrasensibile costituiscono il cuore del sistema platonico, a cui
tutte le altre dottrine fanno riferimento, compresa naturalmente la
visione etica. Di conseguenza, l’intera tavola dei valori deve
mutare profondamente: come la realtà è gerarchizzata e prevede
esseri ontologicamente inferiori (quelli materiali) e superiori (il
mondo delle idee), così anche
i valori che l’essere umano può perseguire saranno di due livelli:
valori materiali
e spirituali,
con ovvia
affermazione di superiorità dei secondi.
Anche
il tradizionale dualismo
antropologico ereditato
dall’orfismo che vede nell’uomo due irriducibili componenti - il
corpo e l’anima - riceve ora un’adeguata fondazione, Per la prima
volta la metafisica platonica consente di distinguere ontologicamente
le due componenti, giungendo a concludere per una sostanziale
svalutazione del corpo ed una simmetrica valorizzazione dell’anima.
Quindi,
come la realtà è divisa in due grandi ambiti, così anche l’uomo
ed i valori. E poiché l’attività specifica dell’anima resta per
PLATONE
quella intellettiva, il compito
morale dell’uomo,
la sua specifica virtù, risulta nuovamente essere la
conoscenza. La
lezione dell’intellettualismo etico socratico viene dunque
confermata.
Il
passo che segue, tratto da Leggi,
una delle opere
più mature di PLATONE, presenta appunto la nuova tavola dei valori
che la scoperta del mondo sovrasensibile ha reso possibile.
ATENIESE
- E
ora stia attento chiunque ha udito i precetti sulla Divinità e sugli
avi tanto amati: dopo gli Dei, l’anima è il possesso più divino
fra quanti l’individuo detiene; possesso, a lui particolarissimo.
Tutto quello che più appartiene a noi stessi è di duplice specie:
facoltà più forti e migliori; altre più deboli e deteriori; le
prime signoreggiano; serve sono le seconde. Per tal modo, giusto è
il mio precetto, quando affermo dovere dell’uomo dare tributo
d’onore all’anima, come ad entità seconda, dopo gli Dei, nostri
signori, e dopo le entità superiori per dignità successive a
quelli.
D’altra
parte, nessuno, per così dire, onora l’anima in giusta maniera.
Crede soltanto di tributarle onore. Onore indiscutibilmente è un
bene divino; nulla che in se stesso sia male, è segno d’onore. Chi
dunque crede con certe cognizioni o
crede con certi
doni di far più grande l’anima sua oppure per mezzo di una certa
condiscendenza, senza innalzarla per nulla, da condizione deteriore a
migliore condizione: ecco, costui crede certo di onorar l’anima, ma
non fa assolutamente nulla di quanto crede. E s’incominci. L’uomo
entra appena nella fanciullezza, e ritiene di essere in grado di
conoscere ogni cosa; crede di tributar onore all’anima sua,
tributandole ogni lode: ecco, s’affretta a concederle di fare ciò
che vuole. E in ciò consiste quanto si diceva ora, cioè che,
facendo così si apporta danno, non onore. E si dovrebbe invece
onorar l’anima, seconda in grado, dopo gli Dei.
Del resto,
nemmeno quando un uomo non ritiene se stesso causa degli errori
ch’egli stesso commise via via, e delle sciagure che moltissime e
gravissime su lui discendono, incolpa gli altri, e se stesso cerca
scagionare: ebbene, in tal caso crede d’onorar la propria anima, e
invece è ben remoto dal dare questo onore all’anima sua. In realtà
quest’uomo le porta immenso danno. Così, nemmeno quando indulge al
piacere per vie contrarie alle direttive del legislatore: in
quest’occasione non c’è assolutamente onore, disonore anzi e
disprezzo, poiché quest’uomo fa colma l’anima sua di mali e di
rimorso. E nemmeno quando per opposta ragione è incapace di resister
da forte e reggere alla fatica, a terrore, al dolore fisico, al morso
del dolore morale, bensì cede, contrariamente a ciò che il suo
legislatore vorrebbe: in tal caso, cedendo, l’anima sua l’uomo
non onora.
Oh!
quest’uomo, rende quella sua anima ben spregevole cosa
comportandosi in questo modo! E nemmeno egli l’onora, quando
ritiene che il vivere sia assolutamente un bene; bensì, anche in
quest’occasione, disprezza l’anima sua. L’anima ritiene che
sventura suprema sia l’esistenza nell’Invisibile; ed egli cede,
non si oppone, non cerca di insegnare all’anima sua, non cerca di
dimostrare a quest’anima che ella non sa nemmeno se invece natura
non ci riserbi forse, del tutto per opposta guisa, i beni più grandi
presso gli Dei di colà. E nemmeno, indubbiamente, quando l’uomo
preferisce bellezza a virtù; perché anche questo è completo e vero
disprezzo dell’anima sua, null’altro più. Questo ragionamento
concluderebbe che un corpo ha pregio superiore all’anima. Ed è
menzogna codesta. Non è possibile che chi è nato dalla terra, abbia
pregio superiore di chi proviene dal cielo. Ma chi sull’anima va
formulando altra opinione, non sa di trascurare questo possesso
dell’anima ch’è stupendo possesso. E nemmeno quando si desidera
acquistar denaro e ricchezze per non giusta via; o quando non si
sente schifo in quella che s’acquistano. Evidentemente in tal caso
si onora la propria anima con materiali doni. Oh! quest’uomo
completamente la delude! Il pregio di lei e quella bellezza, ecco,
egli vende per pochi soldi. E tutto l’oro della terra e l’oro che
sta sotto la terra, non avrebbero pregio sufficiente per comprar la
virtù. Diciamo, insomma, in due parole: l’uomo che non voglia, a
prezzo d’ogni sforzo, tenersi lontano da quello che il legislatore
annovera come male e ne dà disposizione in conseguenza; l’uomo che
non voglia, reciprocamente, uniformare, con tutte le sue forze, la
propria condotta a ciò che il legislatore ritiene bello e buono:
ebbene, costui non sa che in tutti questi casi, l’anima sua, la
cosa più divina, egli disprezza e mette in non cale; in condizione
quest’ultima di obbrobrio sommo e di miseria. Del resto è un
fatto, nessuno, per così dire, riflette quale sia la punizione (e
possiamo dirla tremenda) della malvagità. Ed è, questa punizione
tremenda, esser posto in pari schiera con uomini che sono cattivi;
dover fuggire, una volta ottenuta questa parità, chi è onesto,
dover fuggire i discorsi di lui e sentirsene del tutto diviso; invece
attaccarsi ai malvagi e perseguir quella compagnia. E chi frequenta
uomini di questo genere, si trova ineluttabilmente costretto a fare e
a sopportar ciò che, per naturale ragione, questi uomini pure si
trovano costretti a fare e a dire. E qui non è tanto una pena (ciò
ch’è giusto è pure bello, persino la pena); piuttosto una
vendetta, una condizione sciagurata, compagna dell’ingiustizia. E
tanto chi la trova questa vendetta, quanto chi non la trova, è
sciagurato. Il secondo, perché non ha modo d’emendarsi; l’altro,
perché, con propria rovina, deve dare esempio affinché altri molti
siano salvati. Generalmente parlando, infatti è ragione di vanto
poter seguire chi è migliore di noi; come pure rendere quanto
migliori si può le qualità nostre peggiori, pur suscettive di
diventar migliori.
Insomma
l’uomo non ha possesso più naturalmente adatto dell’anima per
fuggire il male e per seguire una traccia segnata, onde cogliere ciò
che vi è di più perfetto; nulla più suscettivo di far persistere,
per tutta la vita che rimane, fedeli ad un proponimento, una volta
per sempre deciso. Questo il motivo per cui l’anima è ritenuta
seconda nella nostra stima.
Il terzo
posto invece (ognuno può aspettarsi questa partizione) appartiene,
seguendo naturale ordine, al corpo.
Si
tratta ora di considerar questa categoria d’onori e scorgere quali
siano veri e quali falsi. Dovere, codesto, particolare del
legislatore. E questa ne è, direi, la sentenza. Pregio del corpo,
non dev’essere bellezza o forza, o
velocità o
grandezza, e nemmeno la salute, pur ammettendo che molti, senza
dubbio, potranno avere quest’opinione. Certo, nemmeno le opposte
qualità. Qualità intermedie offrono invece arra più sicura per chi
miri ad ottenere uno svolgimento temperato, in armonia. Le prime
qualità rendono infatti l’anima tronfia e piena di sicura
alterigia, le opposte, invece, abbietta e illiberale.
Lo stesso va
ripetuto per l’acquisto di denaro e di beni in genere. E
l’apprezzamento nostro procederà secondo i medesimi criteri.
L’eccesso infatti produce nella Città e negli individui inimicizie
e contese; la deficienza invece per lo più porta con sé il
servaggio.
Oh! nessuno
sia avido di posseder molto denaro e molti beni materiali, pensando
ai propri figli! nessuno cerchi di lasciarli, dopo la morte, al
massimo grado ricchi! Cosa questa non buona, né pei figli né per la
patria. Al contrario, un complesso d’averi che non costringa i
giovani ad adulare e non li conduca a sentir mancanza del necessario;
questa la ricchezza, fra tutte, la più opportuna e la migliore,
s’armonizza ai nostri bisogni e rende di fronte a tutte le
evenienze l’esistenza immune dal dolore.
Ai
figli non conviene lasciar oro, bensì geloso senso d’onore. Si
crede comunemente di poter inspirar nei giovani questo senso d’onore,
in quanto, se qualcuno agisce scorrettamente, lo si rimprovera; il
modo con cui tuttavia oggi si procede non è certo efficace. I nostri
ammonimenti si limitano a dire al giovane ch’egli deve, in ogni
occasione, aver modesto contegno e rispettoso. Invece, l’accorto
legislatore, cercherà d’infondere nei più vecchi un senso
maggiore di rispetto di fronte ai più giovani; il più vecchio deve
stare molto attento, più d’ogni altra cosa, che qualche giovane
non lo veda o non l’oda mentre fa o
dice ciò che
non va bene. Dove i vecchi non hanno rispetto alcuno, i giovani sono
necessariamente sfrontati. E perfetta educazione di giovani e
d’adulti non consiste tanto in un continuo ammonire, ma piuttosto
nel dimostrar di fare personalmente, nella vita, ciò che ad altri,
per ammonimento, si dice.
Platone,
Leggi, V,
726a - 729b, traduzione di E. Turolla)
6. Aristotele: la felicità consiste nell’attività contemplativa
La
strada aperta da SOCRATE
e PLATONE
trova consenziente anche ARISTOTELE,
il quale sostiene che la felicità,
per l’uomo come per ogni altro ente, non può consistere se non
nella piena
realizzazione della propria essenza;
nel caso dell’essere umano tale essenza è costituita
dal pensiero razionale
che è appunto la manifestazione più elevata dell’anima. Inoltre,
poiché la ricerca razionale trova il suo pieno compimento
nell’esercizio delle scienze
teoretiche (cioè
quelle non finalizzate ad alcun obiettivo pratico), dove la
conoscenza è fine e non mezzo, ARISTOTELE
può concludere che l’obiettivo
adeguato del vivere umano può essere solamente l’attività
contemplativa.
L’uomo
è dunque orientato verso la pura conoscenza della verità, unica
ricompensa adeguata alla sua fatica. Conclude appunto ARISTOTELE
che il bìos
theoretikós, cioè
la vita spesa nella ricerca fine a se stessa del vero, costituisce il
livello più elevato di esistenza possibile, al punto che, lo stesso
divino, il “motore
immobile”, viene
appunto considerato pensiero di pensiero (“nóesis
noéseos”).
Anch’egli,
dunque, contempla; e non può che contemplare l’oggetto più
perfetto: se stesso. ARISTOTELE
può perciò concludere che la vita contemplativa è esattamente
quella che ci assimila al divino.
Nel
passo che segue, tratto dal libro X dell’Etica
Nicomachea,
lo Stagirita
sostiene appunto il primato della vita contemplativa.
Ma
se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia
conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della
nostra parte migliore. Che sia l’intelletto o qualche altra cosa
ciò che si ritiene che per natura governi e guidi e abbia nozione
delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa più
divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù
che le è propria sarà la felicità perfetta. S’è già detto,
poi, che questa attività è attività contemplativa. Ma si ammetterà
che questa affermazione è in accordo sia con le nostre precedenti
affermazioni sia con la verità. Questa attività, infatti, è la più
alta (giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che
sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più elevati);
inoltre, è la più continua delle nostre attività: infatti,
possiamo contemplare in maniera più continua di quanto non possiamo
fare qualsiasi altra cosa. Noi pensiamo che il piacere sia
strettamente congiunto con la felicità, ma la più piacevole delle
attività conformi a virtù è, siamo tutti d’accordo, quella
conforme alla sapienza; in ogni caso, si ammette che la filosofia ha
in sé piaceri meravigliosi per la loro purezza e stabilità, ed è
naturale che la vita di coloro che sanno trascorra in modo più
piacevole che non la vita di coloro che ricercano. Quello che si
chiama
“autosufficienza” si realizzerà al massimo nell’attività
contemplativa. Delle cose indispensabili alla vita hanno bisogno sia
il sapiente, sia il giusto, sia tutti gli altri uomini; ma una volta
che sia sufficientemente provvisto di tali beni, il giusto ha ancora
bisogno di persone verso cui e con cui esercitare la giustizia, e lo
stesso vale per l’uomo temperante, per il coraggioso e per ciascuno
degli altri uomini virtuosi, mentre il sapiente anche quando è solo
con se stesso può contemplare, e tanto più quanto più è sapiente;
forse vi riuscirà meglio se avrà dei collaboratori, ma tuttavia
egli è assolutamente autosufficiente. E questa sola attività si
riconoscerà che è amata per se stessa, giacché da essa non deriva
nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività pratiche traiamo
un vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa. Si
ritiene che la
felicità consista nel tempo libero: infatti, noi ci impegniamo per
essere poi liberi, e facciamo la guerra per poter vivere in pace.
Dunque, l’attività delle virtù pratiche si esercita nell’ambito
della politica ed in quello della guerra, ma le azioni relative a
questi ambiti sono ritenute affatto impegnative, ed in modo totale le
attività militari (giacché nessuno sceglie di fare la guerra per la
guerra, e nessuno prepara la guerra per la guerra: sarebbe giudicato
un vero e proprio maniaco assassino, se degli amici facesse dei
nemici per provocare battaglie e uccisioni!). Anche l’attività del
politico è affatto impegnativa, e, oltre alla attività civica in
quanto tale, mira a ricavare poteri ed onori o almeno a procurare la
felicità per sé e per i suoi concittadini, felicità che è
differente dalla attività politica, e che, chiaramente, anche
ricerchiamo in quanto ne è differente. Se, dunque, tra le azioni
conformi alle virtù, quelle relative alla politica ed alla guerra
eccellono per bellezza e grandezza, e se queste azioni sono affatto
impegnative, mirano a qualche fine e non sono degne di essere scelte
per se stesse; se, d’altra parte, si riconosce che l’attività
dell’intelletto si distingue per dignità in quanto è un'attività
teoretica, se non mira ad alcun altro fine al di là di se stessa, se
ha il piacere che le è proprio (e questo concorre ad intensificare
l’attività), se, infine, il fatto di essere autosufficiente, di
essere come un ozio, di non produrre stanchezza, per quanto è
possibile ad un uomo e quant’altro viene attribuito all’uomo
beato, si manifestano in connessione con questa attività: allora,
per conseguenza, questa sarà la perfetta felicità dell’uomo,
quando coprirà l’intera durata di una vita: giacché non c’è
nulla di incompleto tra gli elementi della felicità. Ma una vita di
questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà
cosi in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di
divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita
natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività
conforme all’altro tipo di virtù. Se, dunque, l’intelletto in
confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività
secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana.
Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché
è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi,
al contrario, per quanto è possibile; bisogna comportarsi da
immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che
è in noi. Infatti, sebbene per la sua massa sia piccola, per potenza
e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi,
che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero che è la
sua parte principale e migliore. Sarebbe allora assurdo che egli non
scegliesse la vita che gli è propria ma quella che è propria di
qualcun altro. Ciò che abbiamo detto prima verrà a proposito anche
ora: ciò, infatti, che per natura è proprio di ciascun essere, è
per lui per natura la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo,
quindi, questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero
che l’uomo è soprattutto intelletto. Questa vita, dunque, sarà
anche la più felice.
(Aristotele,
Etica Nicomachea, X,
7, 1177a12 -1178a8,
trad. di M.
Zanatta, BUR)
7. La figura del saggio nell’età ellenistica
Con
l’avvento della dinastia macedone e la sostanziale perdita
dell’indipendenza politica della Grecia avvenuta
sotto ALESSANDRO
MAGNO, tutto
l’orizzonte culturale che ha caratterizzato le poleis
greche durante
l’età classica va in crisi. L’uomo
greco, abituato da
secoli a concepire se stesso principalmente come “cittadino” si
trova improvvisamente espropriato
della dimensione politica
e deve ritrovare la propria collocazione rispetto ad una nuova tavola
di valori.
Come
in tutti i momenti di grande crisi e di scoraggiamento, occorre un
ri-orientamento dell’esistenza. Ciò che l’uomo del periodo
ellenistico chiede ai “sapienti” della sua epoca non è tanto che
gli dischiudano i misteri del cosmo, o quale sia lo Stato ideale,
quanto piuttosto che gli regalino una
“ricetta” per la felicità, una
saggezza concreta che consenta di ritrovare in sé quell’equilibrio
e quella pace che la realtà esterna ha smarrito.
L’uomo
greco del periodo ellenistico continua ad essere convinto di potersi
salvare da solo, di riuscire a dare senso alla propria esistenza
senza ricorrere a nulla che sia al di fuori di sé, come già il
saggio contemplativo platonico ed aristotelico. Questa aspirazione
all’autosufficienza chiede
però di incarnarsi in nuove forme storiche, in rinnovate proposte
antropologiche ed etiche, non più legate alla metafisica di PLATONE
o di ARISTOTELE,
della cui verità l’ellenismo tende a dubitare.
In
questo contesto nasce l’ideale
ellenistico del “saggio”,
portato avanti con lievi differenze ma forti analogie, dalle tre
“scuole” dell’età ellenistica: l’epicureismo,
lo stoicismo
e lo scetticismo.
L’invito
comune è quello di raggiungere l’impassibilità,
sotto la forma del piacere
catastematico
secondo gli
epicurei, dell’apatia
per gli stoici o
dell’indifferenza secondo gli scettici.
Quando
EPICURO,
nella sua Epistola
a Meneceo
tratteggia l’ideale
del saggio, invita innanzi tutto a non
temere la morte,
perché essa è privazione della sensazione e dunque privazione di
qualsiasi bene e male, dato che questi ultimi possono manifestarsi
solo nella sensazione. Il sapiente, in realtà, assume una posizione
di indifferenza sia rispetto alla vita che alla morte. Soprattutto
EPICURO
invita a controllare
i desideri,
limitandosi a soddisfare quelli naturali e necessari in quanto la
ricerca degli altri (non naturali o non necessari) determina
turbamento dell’anima e quindi provoca la perdita del piacere
catastematico.
L’impassibilità diviene dunque il criterio unico per scegliere
certi piaceri e lasciarne altri.
Del
tutto analoga la posizione dello stoicismo; il saggio stoico,
ritenendo che ogni cosa sia inesorabilmente guidata dal proprio
destino, è convinto che la sapienza capace di dare la pace interiore
e dunque la felicità
non consista in altro che nell’accettazione
volontaria dell’inevitabile corso delle cose.
Un vero e proprio andare incontro deliberatamente al proprio destino
(amor fati).
Quando poi, più
concretamente, si chiede agli stoici in cosa consista la felicità
per l’uomo, essi, che pure in sede metafisica avevano rifiutato la
“seconda navigazione” platonica, ne recuperano sostanzialmente il
dualismo antropologico, indicando la felicità nell’autorealizzazione
di ciò che è proprio dell’uomo: la ragione. Il fatto di
realizzarsi proprio come essere razionale, anche in contrasto con i
propri istinti sensibili, rende l’uomo saggio e felice.
Se
il saggio deve essenzialmente rifuggire dall’irrazionale, che per
gli stoici consiste nelle passioni, il loro ideale di comportamento
coinciderà con l’apatia,
cioè con la totale mancanza di qualsiasi coinvolgimento emotivo.
Non
molto diversa la posizione degli scettici, che trova la sua
espressione più tipica nella figura del “saggio” pirroniano.
Secondo il filosofo di Elide, l’impossibilità della conoscenza fa
sì che il vero
sapiente sia del
tutto privo di opinioni; ciò
lo condurrà all’afasia, cioè alla mancanza di parola (in sostanza
a non formulare alcuna teoria) e, di conseguenza, alla totale
atarassia.
8. Plotino: l’ideale estatico
PLOTINO
giunge quasi al termine della parabola filosofica antica (opera
infatti nel III secolo d.C.) e recupera antropologia, ideali e valori
del platonismo, mediati però con temi della filosofia alessandrina e
della sapienza orientale (soprattutto persiana ed indiana),
confrontandosi anche con il cristianesimo.
Secondo
il filosofo di Licopoli, l’uomo
è chiamato
sostanzialmente alla contemplazione, o
meglio, alla dimensione dell’estasi
(nel suo significato etimologico dell’essere fuori
di sé).
È chiamato ad
incontrare l’Uno, il divino, ed a perdersi nell’infinita vita di
Lui.
Con
un’espressione divenuta famosa, PLOTINO
afferma che la vita del saggio, una volta deposto ogni interesse per
la banalità dei beni materiali e dei desideri sensibili, consiste in
una “fuga da solo
a solo”
con l’Assoluto.
L’ideale
contemplativo plotiniano, costituisce dunque l’inveramento e, in un
certo senso, il superamento dell’antropologia
platonico-aristotelica, che sembra dischiudere i temi della grande
mistica cristiana medioevale.
9. Boezio: l’ideale umano in tempo di crisi
Con
BOEZIO,
console per volere di TEODORICO
durante la dominazione ostrogota in Italia, si può considerare
chiusa la parabola della filosofia antica. Egli, nel momento di grave
crisi spirituale e culturale seguito al crollo dell’Impero Romano
d’occidente, condivide dapprima importanti responsabilità di
governo, ma successivamente, accusato di cospirazione ai danni di
TEODORICO
viene processato e condannato a morte nel 524 d.C.
Nella
solitudine del carcere Boezio interroga la filosofia per avere lumi
circa l’apparente
assurdità dell’esistenza,
ed intreccia echi classici (per lo più di tipo socratico-platonico)
con la nuova sensibilità cristiana.
Di sopra ad
umil roccia. Minacci il vento e scuota sul mare i cavalloni: Tu
quieto e ben protetto dal colmo del tuo vallo vivrai serena vita
sordo del cielo all’ira.
5.1.
«Ma poiché i
balsami delle mie
ragioni penetrano già in te, ritengo di doverne usare di un po’
più forti. 2. Su! Anche se i doni della Fortuna non fossero caduchi
e momentanei, che cosa ci sarebbe in loro che o potrebbe mai diventar
vostro, o che non apparirebbe svilito una volta vagliato ed
analizzato?
3.
Le ricchezze sono preziose per la vostra natura o per la propria? E
fra loro, qual è la più pregevole? 4.
L’Oro, o un
mucchio di denaro? Eppure, esse risplendono di più spendendole che
ammucchiandole, se è vero che l’avarizia rende sempre odiosi, la
generosità invece famosi. 5.
Che se non può
sempre restare possesso di qualcuno quanto si trasferisce ad altri,
il denaro si rivela prezioso allorquando -
trasferito ad altri
- cessa
di essere posseduto a motivo dell’abitudine all’elargizione. 6.
Il medesimo denaro, se venisse ammucchiato presso una sola persona
quanto ce n’è in ogni angolo del mondo, renderebbe completamente
miserabili tutte le altre. Il suono tutt’intero colpisce l’udito
di molti contemporaneamente, invece le vostre ricchezze non possono
passare ad altri, se non spezzettate; e quando ciò si è verificato,
è necessario che esse rendano poveri coloro che lasciano. 7. Misere,
dunque, e povere ricchezze, se non è possibile a più persone averle
tutte, e se non vanno in mano di uno qualunque senza la povertà di
tutti gli altri. 8.
O per caso è il
brillio delle gemme che affascina gli occhi? Ma se c’è qualcosa di
singolare in questo loro splendore, la luminosità è delle gemme, e
non degli uomini; e che gli uomini ne vadan pazzi, io proprio me ne
meraviglio.
9.
Difatti, che cosa c’è che, privo del movimento e dell’organicità
che viene dall’anima, possa a buon diritto parere bello ad un
essere dotato di anima razionale? 10. Benché le gemme, per opera del
Creatore e per propria caratteristica, mantengano qualche elemento di
una bellezza inferiore, tuttavia, collocate come sono al di sotto
della vostra superiorità, per nessun motivo dovrebbero meritare la
vostra ammirazione. 11.
O vi piace la
bellezza della campagna? E perché no? In realtà si tratta di una
bella porzione di un’opera splendida. 12.
Altrettanto, di
volta in volta, gioiamo per la vista di un mare sereno, altrettanto
ammiriamo il cielo, gli astri, la luna, il sole. Forse qualcosa di
tutto ciò ha rapporto con te, forse osi vantarti dello splendore di
qualcuna di queste cose? 13.
O sei forse tu
che ti metti in evidenza con i fiori della primavera, o
è tuo il
rigoglio che si gonfia di frutti estivi? 14. Perché ti lasci rapire
da gioie vacue, perché abbracci beni non tuoi, come fossero tuoi? La
Fortuna non renderà mai tuoi beni che la natura ha voluto che ti
fossero estranei. 15. Senza sorta di dubbio i frutti della terra son
riservati all’alimentazione degli esseri viventi; ma se intendi
soddisfare il bisogno per quanto basta alla natura, non c’è
ragione di cercare l’abbondanza della fortuna. 16.
La natura
s’accontenta del poco e del minimo; se col superfluo vuoi
appesantire la sazietà naturale, quel che caccerai dentro o sarà
sgradito o sarà nocivo. 17.
Finalmente, tu
credi sia una bella cosa distinguersi per varietà d’abiti. Se il
loro aspetto è gradito alla vista, io dovrò limitarmi ad ammirare
la qualità della stoffa o l’abilità del sarto. 18.
Oppure ti fa
essere felice una schiera infinita di schiavi? Se costoro son di
costumi viziosi, costituiscono un peso dannoso per la casa e sono
nemici al padrone stesso; se invece sono onesti, in che modo si potrà
calcolare tra i tuoi beni l’onestà altrui? 19. Da questi esempi
risulta pacifico che nulla di quanto tu valuti tra i tuoi beni è un
bene tuo. E se in loro non esiste un filo di bellezza desiderabile,
qual è allora il motivo di lamentarti se li perdi, o di rallegrarti
se li hai ancora? 20. Che se son belli per volontà di natura, a te
che cosa importa? Ti sarebbero piaciuti egualmente di per sé, anche
se distinti dal tuo patrimonio. 21.
D’altro canto,
essi non son preziosi per il fatto che sono entrati a far parte dei
tuoi beni, ma proprio perché ti parevano preziosi tu hai preferito
aggiungerli alle tue ricchezze.
22.
Ma poi, quale fortuna desiderate con tanto strepito? Voi chiedete -
io credo -
di eliminare
l’indigenza con l’abbondanza. 23.
Eppure, la cosa
va a finire in senso opposto; occorrono molti mezzi per difendere
l’abbondanza di una preziosa suppellettile, e risulta vero quel
detto (GELLIO,
Notti attiche IX. 8)
secondo cui ha
bisogno di molto chi molto ha, ed -
al contrario -
di poco chi
commisura la propria abbondanza con le necessità naturali e non con
la sovrabbondanza del desiderio.
24.
E così non c’è
in voi proprio alcun bene interiore, tanto da dover cercare i vostri
beni in oggetti esterni e staccati da voi? 25.
E lo
stato delle cose
a tal punto è sconvolto, per cui all’essere vivente, reso divino
dal dono della ragione, non sembra di distinguersi se non per il
possesso di oggetti inanimati? 26.
Altri esseri
sono contenti del proprio, voi invece, che siete simili a Dio per la
razionalità, cogliete l’ornamento della vostra natura superiore
tra gli oggetti e più miseri, e non capite che insulto fate al
vostro creatore.
27. Egli ha.
voluto che la schiatta umana eccellesse sopra ogni altro elemento
terrestre, voi invece infognate la vostra dignità al di sotto di
ogni più meschina cosa.
28.
Difatti, se è certo che ogni bene è più prezioso di chi lo
possiede, quando
ritenete che i
più vili tra
gli oggetti sono vostri beni, per vostro stesso giudizio voi vi
sottomettete loro. 29.
Il che si
verifica a
ragione. Cioè, la condizione della natura umana è che eccella su
tutto il resto
allorquando è conscia di se stessa, ma si abbassi sotto il livello
degli animali, se cessa di aver coscienza di sé; difatti, per gli
altri esseri viventi è naturale ignorarsi, per gli uomini è una
colpa.
30.
Quant’è smisurato codesto vostro errore, se ritenete che ci si
possa adornare
con ornamenti estranei! 31.
Ma questo non
può verificarsi: se qualcosa brilla per ciò che le si mette sopra,
quel che sta sopra vien lodato, quel che ne resta coperto e velato
perdura egualmente nella sua bruttezza.
(Boezio,
Consolazione, IV,
2-31,
a cura di A.
Caretta e L. Samarati, La Scuola)