I fondamenti del diritto e della politica nella filosofia antica
Materiali
Su
cosa è possibile fondare la legge e la necessità di rispettarla?
Che
rapporto deve sussistere tra la legge positiva e la coscienza di
colui che è chiamato a darle attuazione?
Come
dev’essere organizzata, concretamente, la vita politica di uno
Stato per garantire sicurezza, prosperità e pace ai cittadini?
Queste
sono le tre domande fondamentali grazie alle quali intendo rileggere
l’esperienza filosofico-politica del mondo greco e determinarne le
valenze fondamentali; com’è facile vedere, si tratta di quesiti
ancora profondamente attuali in questa nostra epoca inquieta dove la
dimensione del giuridico e del politico alimenta quotidiani problemi.
Le risposte a questi interrogativi, da parte di una civiltà che ha
praticamente identificato “uomo” e “cittadino” costituiscono
un punto di riferimento permanente della cultura occidentale.
1. Il fondamento teologico-naturale
della legge
Uno dei primi termini utilizzati nella
lingua greca antica per indicare l’insieme delle leggi fondamentali
che reggono uno Stato è la parola “kósmos”. TUCIDIDE, ad
esempio, la utilizza con il significato di “ordinamento” ed è in
questo senso che si parla del “kósmos di Pisistrato” o del
“kósmos di Solone”.
Ma è significativo che il termine, di
per sé, viene usato anche - e soprattutto - in relazione all’ordine
naturale delle cose; kósmos è l’equilibrio mirabile della natura,
così come gli dei l’hanno stabilito.
L’accostamento non è affatto
casuale: il mondo greco sostiene una fondazione
teologico-naturalistica del diritto. In sostanza, la legge degli
uomini deve svolgere all’interno della polis un ruolo analogo a
quello della legge divina all’interno degli eventi naturali; deve
stabilire un ordine, un equilibrio, perché ogni cosa sia al suo
posto e svolga il ruolo che le è stato assegnato.
Vi è dunque uno strettissimo legame
tra la capacità di discernere il kósmos che regge tutta la realtà
e la competenza politica; non a caso, il “sapiente” nel mondo
greco antico, accanto alla saggezza pratica ed alla capacità
teoretica e divinatoria, deve anche possedere saggezza politica.
Vi è, in tutto ciò, quasi il preludio
al giusnaturalismo che ha caratterizzato una parte così rilevante
del pensiero giuridico dell’occidente. Ciò che sta a fondamento
della società degli uomini è riflesso di ciò che sta a fondamento
della natura stessa: la legge divina.
Tale fondamento determinerà anche un
criterio di validità delle norme positive. Non sarà possibile
accettare né giustificare la norma che vada contro questa non
scritta ma essenziale legge divina-naturale; quando ciò dovesse
accadere il dissidio di coscienza (si veda più oltre il caso di
Antigone) sarà inevitabile.
La fondazione naturalistica ed al tempo
stesso teologica del diritto spiega pure perché nel mondo greco –
anche trascurando gli eventi propriamente storici – sia stata quasi
ovvia l’identificazione dell’uomo con il cittadino. L’uomo in
quanto essere naturale e l’uomo in quanto essere sociale riposano
sul medesimo fondamento, sono espressione dello stesso ordine. A
questa impostazione di fondo, pur con i dovuti ripensamenti ed
approfondimenti, il mondo greco
non è mai venuto meno.
Il suggello di questa impostazione è
venuto, in un certo senso, dalla morte di SOCRATE, il quale si è
rifiutato di fuggire dal carcere, nonostante la sua innocenza, per
non fare violenza alle leggi e, attraverso di esse, agli dei che ne
costituivano il fondamento ultimo.
2. La fondazione etico-antropologica della legge
Uno sviluppo e un approfondimento
dell’impostazione che abbiamo presentato, si può trovare nel
pensiero politico di PLATONE.
Anch’egli è profondamente convinto,
innanzi tutto, che la sensibilità politica debba costituire uno
degli aspetti salienti del saggio. Nel libro VII di Repubblica,
descrivendo il celebre “mito della caverna”, PLATONE parla di un
uomo – immagine del sapiente – che, dopo essersi liberato dai
ceppi della falsa conoscenza ed essere giunto alla contemplazione
della verità del divino, torna nel buio della caverna da cui era
fuggito per cercare di liberare gli altri suoi compagni che, per
tutta risposta, cercano di ucciderlo.
PLATONE era infatti profondamente
consapevole dei rischi che comporta un’attività educativo-politica
che ricerchi la giustizia e la verità in una società
sostanzialmente corrotta e vacua. Il tragico destino di SOCRATE ne
era stata la vivente dimostrazione. Sapienza è dunque anche la
condivisione di un destino, un profondo senso umano e sociale della
solidarietà (non tanto economica - dato che il vero sapiente
platonico è povero - quanto spirituale) nonostante i rischi che essa
comporta.
Leggiamo insieme l’intenso passo
platonico.
- Dopo ciò, dissi, assomiglia tu la nostra natura, per quanto
riguarda sapienza e ignoranza, a un fenomeno di questo genere:
considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a
ma’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per
tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da
fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi
e guardare solo dinanzi a sé, ma impossibilitati, per i vincoli, a
muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di
loro, in alto e lontano, e che tra il fuoco e i prigionieri corra in
alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come
quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui
quali esibiscono i loro spettacoli.
- Vedo, disse.
- Guarda ora degli uomini che lungo questo muretto trasportino
utensili di ogni genere, sporgenti oltre il muro e statue e altre
immagini, animali di pietra e di legno, e ogni sorta di oggetti; e,
com’è naturale, alcuni di questi trasportatori parlino, e altri
siano in silenzio.
- D’una strana immagine tu parli, disse, e di ben strani
prigionieri!
- Simili a noi, diss’io, ché questi cotali credi tu anzitutto
che di se stessi e gli uni degli altri vedano altro che le ombre
riflesse dal fuoco sulla parete dell’antro di fronte a loro?
- Come potrebbe essere altrimenti, se san costretti a tenere per
tutta la vita immobile la testa?
- E che vedrebbero degli oggetti trasportati? Non forse lo stesso?
- Come no?
- E se fossero in grado di discorrere fra loro, non pensi tu che
essi prenderebbero per realtà quel che appunto vedessero?
-Per forza.
- E se il carcere avesse anche un’eco dall’opposta parete?
Quando uno di quei che passano parlasse, credi tu che costoro
riterrebbero sia altri a parlare se non l’ombra trascorrente?
- Io no, per Zeus, disse.
- Insomma, costoro sotto ogni rapporto non altro riterrebbero
essere il vero, se non le ombre di quegli oggetti.
- Per forza certo.
- Guarda ora, diss’io, qual sarebbe per loro la liberazione e la
guarigione dai vincoli e dall’insensatezza, se cioè non avverrebbe
loro naturalmente questo: qualora uno fosse sciolto e costretto d’un
tratto ad alzarsi, a muovere in giro il collo, a camminare e guardare
alla luce, e facendo tutto ciò provasse dolore e fosse incapace per
il barbaglio di scorgere gli oggetti di cui prima vedeva le ombre,
cosa credi ch’ei direbbe se uno gli dicesse che prima vedeva solo
vane apparenze, e che ora invece vede Più giusto qualcosa di Più
vicino alla realtà, rivolto com’egli è a una realtà maggiore, e
mostrandogli ogni singolo oggetto trapassante lo costringesse
domandandogli a rispondere cosa esso sia? Non credi tu che ei
resterebbe imbarazzato, e riterrebbe le cose che vedeva prima più
vere di quelle indicategli ora?
- Di gran lunga, disse.
- E se quegli lo costringesse a guardare alla luce stessa, non
credi che gli farebbero male gli occhi, e che ei fuggirebbe tornando
a rivolgersi a quegli oggetti che può scorgere, e questi riterrebbe
davvero Più chiari di quegli mostratigli?
- Così è, disse.
- E se, diss’io, uno lo trascinasse via a forza di li, per
l’aspra e ripida salita, e non lo lasciasse prima d’averlo tratto
alla luce del sole, non credi che egli soffrirebbe e rilutterebbe a
esser trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi pieni
di bagliore non sarebbe in grado di veder nulla delle cose che ora
diciamo vere?
- Non potrebbe no, almeno tutto a un tratto.
- Avrebbe invece, credo, bisogno di abituarvisi, per poter vedere
gli oggetti alla superficie; e anzitutto discernerebbe più
facilmente le ombre, poi le immagini umane e degli altri oggetti
riflesse nell’acqua, infine gli oggetti stessi; quindi egli
vedrebbe più facilmente i corpi celesti e il cielo stesso di notte,
guardando la luce delle stelle e della luna, anziché di giorno il
sole e la luce solare.
- Come no?
- E per ultimo il sole, e non già sue immagini nell’acqua o in
altra estranea sede, ma esso stesso nel suo proprio campo egli
potrebbe scorgerlo e contemplarlo così qual è.
- Per forza, disse.
[…]
- E che? Ricordandosi egli della sua prima dimora e della
conoscenza che regnava laggiù, e dei compagni di carcere d’allora,
non credi che riterrà sé beato per il cambiamento, e commisererà
invece quegli altri?
- Certo.
[…]
- E considera anche questo, diss’io. Se un tal uomo tornato a
scendere laggiù si risedesse in quella stessa sede, non avrebbe egli
gli occhi pieni di tenebra, giungendo tutt’a un tratto dal sole?
- Certo.
- E se egli dovesse tornare a riconoscere quelle ombre, a gara con
quegli altri rimasti sempre in prigionia, mentre ha ancora la vista
ottusa prima che gli occhi gli si mettano a posto, e questo tempo
dell’assuefarvisi non fosse brevissimo, forse che egli non farebbe
ridere, e non si direbbe di lui che salito su ne torna con gli occhi
rovinati, e che non val neanche la pena di tentare di andar su? E
chi cercasse di scioglierli e tirarli su, se essi potessero averlo
nelle mani e ammazzarlo, non lo ammazzerebbero forse?
(Platone, La
Repubblica,
VII, 514- 517a, traduz. F. Gabrieli, BUR).
Anche per PLATONE,
dunque, il vero sapiente non può non essere anche vero politico,
proprio perché ha contemplato il kósmos della realtà ed è quindi
l’unico in grado di ricostruirlo all’interno della società
umana. Non a caso, delineando il suo schema di Stato ideale, PLATONE
finisce con l’elaborare un’analogia tra lo Stato e l’uomo. Tre
sono le anime presenti nell’uomo (concupiscibile, irascibile e
razionale), e tre saranno le classi dello Stato, formate appunto
dagli uomini in cui predomina l’uno o l’altro tipo di anima.
Come, dal punto di vista etico, l’anima
razionale deve prevalere sulle altre due, così sotto l’aspetto
politico, la classe dei sapienti dovrà guidare le altre. Il
fondamento dello Stato è dunque etico ed antropologico, ma ciò, a
ben guardare, non costituisce una radicale novità rispetto
all’impostazione teologico-naturalistica, ma solo uno sviluppo ed
un approfondimento.
La tripartizione dell’anima umana non
è altro che la scoperta, attraverso analisi introspettiva, della
profonda “natura” dell’uomo, del suo kósmos.
Lo Stato e la sua legge, dunque, non
riposano sulla struttura generale della natura, ma su quella
specifica della natura umana; la radice di entrambe resta tuttavia
sempre il kósmos divino.
A conferma di ciò, quando PLATONE
esamina il concetto di “giustizia” (dikaiosýne) conclude
affermando che essa altro non è che il rispetto dei ruoli. Per
ciascun uomo e ciascuna classe vivere secondo giustizia significa
semplicemente stare al proprio posto, svolgere i compiti a cui si è
tenuti e cioè, in una parola, adeguarsi al kósmos previsto. Tale
kósmos è appunto naturale - perché rispetta sia la natura profonda
dell’uomo che quella della polis - e, per ciò stesso, divino.
3. I sofisti e la convenzionalità del diritto
In questo quadro sostanzialmente
omogeneo che contraddistingue la filosofia del diritto dell’antica
Grecia, si distingue il provocatorio pensiero politico dei sofisti
che, nel periodo immediatamente precedente e successivo a SOCRATE
hanno affrontato il problema della fondazione del diritto muovendo da
parametri gnoseologici più “deboli” di quelli
socratico-platonici, e giungendo ad una concezione
filosofico-giuridica assai moderna e spregiudicata che può essere
“etichettata” come convenzionalismo giuridico.
Come SOCRATE, così anche i Sofisti
della prima generazione (per es. PROTAGORA e GORGIA) sono consapevoli
del fatto che la società umana necessita di
regole. Solo così l’uomo “nasce” alla
libertà civile e lo Stato è propriamente l’effetto storicamente
visibile di questo kósmos.
Ma, su cosa si fonda la legge? In
forza di cosa essa è tale? O, in altre parole, da dove deriva il suo
“dover essere”?
Secondo IPPIA è necessario distinguere
una “legge di natura”, universalmente valida, dalle “leggi
umane”, diverse da nazione a nazione. Soltanto la legge di natura è
ciò che realmente unisce gli esseri umani ed IPPIA trae da questa
sua convinzione la necessità di un ideale cosmopolita decisamente
insolito per la sensibilità greca.
Anche ANTIFONTE ritiene che la vera
legge sia solo quella “naturale”, la quale sembrerebbe consistere
nella ricerca dell’utile e della concordia.
D’altra parte, la mancanza di un
fondamento assoluto della legge porta inevitabilmente alla
frantumazione dei criteri relativi; per questo le posizioni ancora
ragionevoli di IPPIA ed ANTIFONTE vengono sopraffatte da altre in cui
viene del tutto meno il tentativo di rapportare la legge ad un ordine
naturale universale.
Così, ad esempio, TRASIMACO e CRIZIA,
sostengono che le leggi positive altro non sono che la forma
attraverso cui i potenti tutelano i propri interessi, ed un certo
CALLICLE (ignoto personaggio del Gorgia platonico) pare sia giunto
addirittura ad affermare che la stessa legge naturale debba
coincidere con la volontà del più forte. Si tratta di tesi assai
vicine alla sensibilità contemporanea, che sembrano in maniera
impressionante anticipare - con tutti i problemi connessi - le idee
espresse molti secoli dopo da BAKUNIN, STIRNER o NIETZSCHE.
Nel disomogeneo panorama della
riflessione sofistica, presentiamo tre frammenti: il primo di IPPIA,
e gli altri due di TRASIMACO. Essi appaiono davvero significativi per
sottolineare le profonde divergenze concettuali tra la cosiddetta
prima sofistica (PROTAGORA, GORGIA, IPPIA, ANTIFONTE, ecc.) e la
seconda sofistica (la generazione degli “eristi”, come CRIZIA e
lo stesso TRASIMACO).
I
Siccome gli uomini si mostrarono per natura incapaci di vivere
individualmente e si raccolsero in reciproca unione sotto la
pressione della necessità di modo che fu da essi trovato tutto ciò
che riguarda il vivere civile con le invenzioni pratiche, che gli
sono utili, e poiché, d’altra parte, non sarebbero possibili
rapporti sociali e un’esistenza, ove le leggi non abbiano vigore.
(...) orbene, per tutte queste ragioni inesorabili il principio
giuridico e la norma del giusto sono re fra gli uomini e in nessun
modo potrebbero essere abbattuti: questi principii, infatti
costituiscono un saldo ordinamento determinato dalla natura.
II
Io affermo che il giusto non è altro se non l’utile del più
forte.
III
Ogni governo emana appunto leggi conforme al proprio utile, la
democrazia leggi democratiche, la tirannide tiranniche e analogamente
tutte le altre forme di governo. Dopo emanata la loro costituzione
sono soliti dimostrare ai sudditi che il giusto consiste nel loro
utile, e puniscono coloro che lo trasgrediscono come violatore delle
leggi e colpevole d’ingiustizia. Orbene, questa realtà
corrisponde, o mio caro, alla mia definizione, che cioè in tutti gli
stati è giusto sempre il medesimo principio: l’utile del governo
costituito.
(Traduzione
di M. Untersteiner, per la Nuova Italia, Firenze).
4. Legge e coscienza
Che rapporto deve instaurarsi tra
l’universalità - vera o presunta - della legge e la coscienza
umana? Il soggetto dovrà sempre obbedire alla legge o continuerà a
poter disporre di un “diritto di resistenza”?
In altre parole, quando e con che
modalità è possibile fondare l’obiezione di coscienza?
Naturalmente la risposta a questa
domanda sarà diversa a seconda del fondamento che si attribuisce
alla norma giuridica.
In un’ottica teologico-naturalistica
la legge umana dovrà essere obbedita solamente se sia conforme alla
norma divina e “naturale”; in caso contrario sarà eticamente
meglio disattendere il comando giuridico positivo per non incorrere
nell’ira e nella punizione degli dei. In sostanza il rispetto di
una legge contraria all’ordine naturale delle cose costituirebbe un
atto di “hybris”, cioè di quella colpevole tracotanza che vuole
sfidare il divino subendo però, come conseguenza, l’inevitabile
punizione del fato.
Se la legge divina è kósmos, una
norma giuridica che la violi non può che essere espressione di káos,
di un disordine che dovrà
comunque ed inevitabilmente essere superato e ricondotto
all’equilibrio.
È questo il tema adombrato in
Antigone, tragedia composta da SOFOCLE intorno al 442 a.C.; dove si
narra il dramma della sorella di Polinice (Antigone, appunto),
costretta dal destino a scegliere tra il rispetto della legge della
polis e quello
della legge divina.
Più in specifico, la tematica riguarda
il problema della sepoltura data al nemico, questione di cui SOFOCLE
si era già occupato nella seconda parte dell’Aiace.
La vicenda della tragedia è semplice;
Polinice, fratello di Antigone, è morto combattendo contro la sua
patria, e Creonte, tiranno di Tebe, ordina che il suo cadavere sia
dato in pasto ai cani, comminando la lapidazione a chi oserà
trasgredire il suo ordine. Antigone, tuttavia, mossa da pietà
fraterna, e convinta di adempiere al sacro e naturale dovere della
sepoltura dei morti, seppellisce simbolicamente Polinice con uno
strato di polvere. Creonte, adirato, fa scoprire il cadavere ed
Antigone, nuovamente, ripete il rito funebre, ma viene scoperta e
condotta davanti al tiranno.
Nell’intera vicenda descritta dalla
tragedia va vista la contrapposizione tra leggi dello Stato e leggi
naturali, e, forse ancora più in profondità, l’opposizione tra
nómos (la convenzione) e phýsis (la natura). Si tratta di un
problema presente anche nella contemporanea riflessione filosofica
sofista, ma SOFOCLE lo imposta in un’altra ottica. Mentre la prima
sofistica intende piuttosto condannare l’ingiustizia sociale
artificiosamente creata dagli uomini, SOFOCLE intende piuttosto
condannare il relativismo giuridico - caro alla sofistica - nel nome
di una trascendente norma divina e naturale.
La riflessione sofoclea, per altro,
tocca un momento assai profondo: il bene ed il male, su questa terra,
spesso non sono altro che la copertura convenzionale di altrettanto
convenzionali interessi. La prospettiva dell’onore e del disonore,
del potere e dell’obbedienza possono talora essere ammantate di una
luce etica che invece, a livello naturale è totalmente estranea a
questi problemi.
Il passo che segue è il dialogo tra
Antigone e Creonte, dove l’eroina dichiara di avere violato la
legge della polis per obbedire ad una più alta norma, divina ed
immutabile, che da sempre vive nel cuore dell’uomo.
CREONTE (AD ANTIGONE): Ma tu, ma tu che chini a terra il capo,
confermi lutto questo, oppure neghi?
ANTIGONE: Io lo confermo, si, non nego il fatto.
CREONTE (ALLA GUARDIA): Ora va’ via, dove tu vuoi, prosciolto da
grave accusa.
(AD ANTIGONE) Ma tu dimmi, in breve, senza troppi discorsi: lo
sapevi, ch’era stato bandito di non farlo?
ANTIGONE: Sapevo? E come no? Tutti sapevano.
CREONTE: Eppure osasti calpestar le leggi?
ANTIGONE: Giove certo non fu, chi me le impose, né la Giustizia
agl’Inferi compagna codeste leggi fissò mai fra gli uomini. Io non
pensai che tanta forza avessero gli ordini tuoi, da rendere un
mortale capace di varcare i sacri limiti delle leggi non scritte e
non mutabili.
Non son d’ieri né d’oggi, ma da sempre vivono: e quando
diedero di sé rivelazione, è ignoto. Né volevo io, per timore d’un
orgoglio d’uomo, a condanna divina espor me stessa. Sapevo di
morire in un domani, no? s’anche non l’avessi tu bandito.
Ora, se innanzi tempo ho da morire, io lo chiamo un vantaggio: per
chi vive tra dolori infiniti, com’io vivo, perché la morte non
sarebbe un bene? Per me, avere la sorte che tu dài, sofferenza non
è. Dovendo invece sopportare che fosse senza tomba il morto che già
nacque da mia madre, di quello avrei sofferto: ora, di questo io non
soffro. E ti sembro irragionevole? Naturalmente; dinanzi ad un folle
rispondo d’un reato di follia.
CORO (COMMENTANDO): Dura, la pianta nuova, come il tronco paterno;
e sotto i colpi non sa flettersi.
CREONTE: I più temprati orgogli più si piegano, devi saperlo. Ed
il più duro ferro irrigidito da fiamma rovente vedi più spesso
indebolirsi e frangersi. E con più breve freno i più animosi
cavalli anche si domano. Non deve aver orgoglio chi degli altri è
schiavo. Ma lei, che seppe l’insulto superbo, calpestando le leggi
a tutti esposte, nuovo disprezzo dopo il gesto primo aggiunge ora nel
vanto dell’azione compiuta, e ride. Uomo non io, non più sarei,
lei si, sarebbe un uomo, allora, se tanta audacia non fosse colpita.
Di mia sorella sia pure la figlia e sia pure più sangue mio
d’ogni altra creatura di sangue a me congiunta e protetta da Giove
... ah, no! Non lei, né la sorella sua potranno mai evitare
durissimo destino.
Poiché l’una non meno dell’altra accuso del disegno comune e
di quel funebre rito. Ma l’altra, la si chiami! (DANDO L’ORDINE
AI SUOI SERVI, DI CUI UNO ENTRA NELLA REGGIA)
Or ora l’ho vista, come pazza, senza pace muoversi per le
stanze. Si tradisce prima del tempo la coscienza torbida di chi trama
nell’ombra il male. CREONTE (FISSANDO ANTIGONE CON SEVERITÀ): È
molto odio colui, che, colto a fare il male, sia poi disposto ad
esaltarlo ancora.
ANTIGONE (A CREONTE): Tu che m’hai presa, altro non vuoi, che
uccidermi?
CREONTE: No, null’altro: per me, se ho questo, ho tutto.
ANTIGONE: Ed allora che aspetti? Lo sai pure: dì tutte le parole
tue, non una piace a me, né potrebbe mai piacermi. E nello stesso
modo a te dispiacciono le mie: Davvero, dunque, da che cosa più
luminosa gloria avrei potuto attinger mai che dall’aver deposto
nella tomba un fratello? ... Oh! ... Tu l’udresti come tutti
costoro son contenti di me, se la paura non legasse loro la lingua.
Sì, ma la tirannide fra tanti privilegi ha pur codesto: e dire e
fare quello che si vuole.
CREONTE: Sola fra tutto il popolo di Cadmo tu sei colei che di
questo s’avvede.
ANTIGONE: Vedono anch’essi; ed è per te, che tacciono.
CREONTE: Non ti vergogni d’avere pensieri così lontani da
quelli degli altri?
ANTIGONE: Non è vergogna la venerazione d’un fratello del
sangue e della carne.
CREONTE: Dell’altro, no, che gli mori nemico?
ANTIGONE: Fratello, anch’egli: nato da una sola madre comune,
dallo stesso padre.
CREONTE: E perché lo ringrazi in modo impuro?
ANTIGONE: Il morto ucciso non direbbe questo.
CREONTE: Oh! certo, se l’onori come l’empio ...
ANTIGONE: Non un servo, un fratello s’era spento.
CREONTE: L’assalitore: e l’altro, il difensore ...
ANTIGONE: Ma l’Ade ha il gusto delle leggi eguali.
CREONTE: Buono e cattivo non sono alla pari.
ANTIGONE: Chissà se questo vale anche laggiù?
CREONTE: Il nemico non s’ama anche se morto.
ANTIGONE: Nacqui a legami d’amore, non d’odio.
CREONTE: Se nascesti all’amore, ora discendi ad amare laggiù
quelli che sai. Me vivo, donna non avrà dominio.
(Sofocle,
Antigone, vv. 441-525 trad. G. Lombardo Radice)
Il problema dell’accettazione della
norma si manifesta in maniera ancora più significativa - anche
perché non solo letteraria - nella vicenda umana di SOCRATE, che
accetta una condanna a morte ingiusta pur di non violare la sacralità
delle leggi sulla base delle quali la pena gli è stata inflitta. Gli
uomini hanno sbagliato nell’applicare al suo caso la punizione
prevista per chi si macchia di empietà, ma tale pena e le norme che
la comminano, sono in sé del tutto giuste e SOCRATE vuole esprimere
loro il suo assenso anche a costo della vita.
Nel testo che segue, tratto dal Critone
platonico, SOCRATE immagina che, in seguito ad un suo tentativo di
fuga dal carcere, le leggi della città gli vadano incontro
rivendicando il diritto ad essere obbedite. Leggiamo insieme il passo
platonico.
SOCRATE - Muovi dunque di qui e drizza bene la mente. Se io me ne
vado via da questo carcere contro il volere della citta, faccio io
male a qualcuno, e precisamente a chi meno si dovrebbe, o no? Ancora:
restiamo fermi in quei principi che riconoscemmo insieme essere
giusti, o no?
CRITONE - Non so rispondere, o Socrate, alla tua domanda, perché
non capisco.
SOCRATE - Bene: considera la cosa da questo lato. Se, mentre noi
siamo sul punto ... sì, di svignarcela di qui, o come altrimenti tu
voglia dire, ci venissero incontro le leggi e la città tutta quanta,
e ci si fermassero innanzi e ci domandassero: “Dimmi, Socrate, che
cosa hai in mente di fare? Non mediti forse, con codesta azione a cui
ti accingi, di distruggere noi, cioè le leggi, e con noi tutta
insieme la città, per quanto sta in te? O credi che possa vivere
tuttavia e non essere sovvertita da cima a fondo quella città in cui
le sentenze pronunciate non hanno valore, e anzi, da privati
cittadini, sono fatte vane e distrutte?”, - che cosa risponderemo
noi, o Critone, a queste e ad altre simili parole? Perché molte se
ne potrebbero dire, massimamente se uno è oratore, in difesa di
questa legge che noi avremmo violata, la quale esige che le sentenze,
una volta pronunciate abbiano esecuzione. O forse risponderemo loro
che la città commise contro noi ingiustizia e non sentenziò
rettamente? Questo risponderemo, o che altro?
CRITONE - Questo, sicuramente, o Socrate.
SOCRATE - E allora, che cosa risponderemmo se le leggi
seguitassero così: “O Socrate, che forse anche in questo ci si
trovò d’accordo, tu e noi; o non piuttosto che bisogna sottostare
alle sentenze, quali elle siano, che la città pronuncia?”. E se
noi ci meravigliassimo di codesto loro parlare, elle forse
riprenderebbero così: “O Socrate, non meravigliarti del nostro
parlare, ma rispondi: sei pur uso anche tu a valerti di questo mezzo,
di domandare e rispondere. Di’, dunque, che cosa hai da reclamare
tu contro di noi e contro la città, che stai tentando di darci la
morte? E anzi tutto, non fummo noi che ti demmo la vita, e per mezzo
nostro tuo padre prese in moglie tua madre e ti generò? Parla
dunque: credi forse non siano buone leggi quelle di noi che regolano
i matrimoni, e hai da rimproverare loro qualche cosa?”. - “Non ho
nulla da rimproverare”, risponderei io. “E allora, a quelle di
noi che regolano l’allevamento e la educazione dei figli, onde
fosti anche tu allevato e educato, hai rimproveri da fare? Che forse
non facevano bene, quelle di noi che sono ordinate a questo fine
prescrivendo a tuo padre the ti educasse nella musica e nella
ginnastica?”. - “Bene”, direi io. “E sia. Ma ora che sei
nato, che sei stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire
che non sei figliolo nostro e un nostro servo e tu e tutti quanti i
progenitori tuoi? E se questo è cosi; pensi tu forse che ci sia un
diritto da pari a pari, e così di fronte al padrone se ne avevi uno;
il diritto, dico, se alcun male pativi da costoro, di ricambiarli con
altrettanto male; e nemmeno, se oltraggiato di oltraggiarli, e se
percosso percuoterli, né altro di questo genere: ecco che invece, di
fronte alla patria e di fronte alle leggi, questo diritto ti sarà
lecito; cosicché, se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando
che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni tuo potere di mandare
a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che ciò facendo
operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù? O sei
così sapiente da avere dimenticato che più della madre e più del
padre e più degli altri progenitori presi tutti insieme è da
onorare la patria, e che ella è più di costoro venerabile e santa,
e in più augusto luogo collocata da dei e dai uomini di senno? […]”.
“E ora vedi, o Socrate”, potrebbero seguitare le leggi, “se
è vero questo che noi diciamo, che cioè non è giusto tu faccia
contro di noi quello che ora appunto hai in animo di fare. Perché
noi che ti generammo, noi che ti allevammo, noi che ti educammo, noi
che ti mettemmo a parte di tutti quei beni che erano in nostro
potere, e te e tutti gli altri concittadini; noi, dico, nonostante
ciò, ti abbiamo pur anche fatto capire in tempo, col darne licenza a
chiunque degli Ateniesi lo desideri, dopo che sia stato inscritto nel
ruolo dei cittadini e già conosca il governo della città e le sue
leggi, che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di
prender seco le cose sue e di andarsene dove vuole. […] Ma chi di
voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e
come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora
diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a dare ciò
che noi gli ordiniamo.
Platone, Critone, 50a - 51 e, traduzione di Manara Valgimigli,
Laterza)
Ben diverso invece è il problema
dell’obiezione di coscienza in un’ottica dove la legge sia
considerata puramente convenzionale o addirittura espressione
formalizzata delle prevaricazioni del più forte. Fin dove si può
pretendere l’assenso in una simile prospettiva? Si tratta di una
domanda teoreticamente rilevante, a cui tuttavia il mondo greco non
ha dato alcuna esplicita risposta, proprio perché la posizione
convenzionalistica dei sofisti è comunque rimasta marginale
all’interno della sensibilità ellenica.
5. L’organizzazione ideale della polis secondo
Platone
Proprio perché il diritto si fonda su
una base naturale, il mondo greco ha ritenuto possibile proporre
l’immagine ideale dello Stato che proprio nel diritto trova il suo
fondamento. In sostanza, come c’è una forma ideale della norma,
così ci deve essere una forma ideale dello Stato che su tale norma
si regge.
Di qui lo spazio che numerosi autori
greci, ma soprattutto PLATONE
ed ARISTOTELE, hanno dedicato alla questione dello Stato perfetto,
quello che realizza al meglio il kósmos della legge.
Gli accenti più forti e suggestivi, in
proposito sono contenuti nella Repubblica platonica. Quando SOCRATE
racconta che lo schiavo, ormai liberato dai ceppi del sensibile e
salito a contemplare la perfezione del divino, torna nella caverna
per liberare i suoi compagni, Glaucone non può fare a meno di
obiettare: com’è possibile che quest’uomo, ormai asceso alle
vette della pura contemplazione e convinto di aver raggiunto, ancora
vivo, le Isole dei Beati, invece di cercare di rimanere con tutte le
sue forze in questo stato, decida di abbandonarlo ritornando nella
caverna per cercare di liberare gli altri? L’apparente assurdità
del comportamento si spiega soltanto sulla base di una forte passione
politica, della coscienza di una missione di alto valore etico che è
un dovere da compiere.
È lo stesso atteggiamento che lega
PLATONE alla politica, come attestano alcuni passi della Lettera VII,
e che non può che farci considerare proprio la politica quale esito
“naturale” del suo pensiero, nonostante le delusioni che PLATONE
ricevette in proposito sul piano pratico. Egli ha dedicato ampio
spazio al problema politico in numerosi dialoghi (Gorgia, Politico,
Leggi), ma il luogo dove sono tratteggiate le linee dello Stato
ideale è Repubblica, in un certo senso il primo testo di genere
utopico del pensiero occidentale.
Il principio su cui PLATONE costruisce
il suo Stato ideale è il concetto di giustizia (dikaiosýne), intesa
nel senso di un’adeguata distribuzione dei doveri tra i cittadini;
è giusto chi esplica correttamente le sue funzioni all’interno
dello Stato, adempiendo in tal modo anche al proprio dovere. Ma quali
sono queste funzioni? Esse corrispondono alle tre grandi dimensioni
che caratterizzano la vita psichica del singolo individuo:
1. la funzione sensibile,
che consiste nel garantire con la nutrizione e la procreazione la
sopravvivenza dello Stato;
2. la funzione irascibile,
che consiste nel garanti re con la difesa armata la sua sicurezza;
3. la funzione razionale,
che consiste nel consentire con la prassi politica e la speculazione
la sua direzione.
Da questo è facile intuire come per
PLATONE la politica altro non sia che la trasposizione su scala
macroscopica dell’etica: le funzioni dell’anima sono anche le
funzioni dello Stato, le virtù dell’anima sono anche le virtù
dello Stato. Si tratta, in un certo senso, di una visione
organicistica dello Stato, concepito come una specie di struttura
vivente, la cui sopravvivenza e felicità consiste proprio nel fatto
che ciascuna delle sue componenti svolga tutte e solo le funzioni che
le spettano.
La tripartizione delle funzioni dello
Stato sta alla base della sua stessa conformazione sociale. Infatti
PLATONE fa corrispondere ad ogni funzione una classe deputata al suo
assolvimento.
- la prima classe è quella dei contadini, dei mercanti e degli artigiani. Essi devono provvedere alla vita economica dello Stato, garantendo la sopravvivenza di tutti gli altri cittadini. La loro virtù specifica è la temperanza (sophrosýne), cioè l’autocontrollo e la moderazione. Si tratta dell’unica classe sociale a cui è consentito il possesso della casa o della terra e, in definitiva, la proprietà privata.
- La seconda classe è quella dei custodi, il cui dovere è di vegliare sulla sicurezza dello Stato difendendola con le armi. Frutto di una lunga educazione - specialmente ginnico-musicale - i guerrieri perseguono la virtù del coraggio (andréia). A loro è negata qualsiasi forma di proprietà e non possono contrarre matrimonio: per questo hanno in comune donne e figli, dato che in un tale sistema risulta impossibile attribuire la paternità. Secondo PLATONE questo duplice divieto ha lo scopo di rendere libero il loro animo dalle preoccupazioni della famiglia per il servizio della cosa pubblica.
- L’ultima classe, la più nobile, è quella dei filosofi, cui spettano compiti di governo. La loro specifica virtù è la sapienza, che consiste nella capacità di dirigere lo Stato nel migliore dei modi sia al suo interno che nei rapporti con altri Stati.
Leggiamo il passo di Repubblica dove
PLATONE traccia le linee fondamentali del suo Stato ideale.
- E a questo punto non è forse necessario che, come e per quella
virtù per cui era saggia la città, così e per tale virtù sia
saggio anche il privato individuo?
- Come no?
- E a quel modo e come è coraggioso il privato, così e per
quello sia coraggiosa la città, e che così in ogni altra cosa
attinente a virtù l’uno e l’altra stiano analogamente del pari?
- Per forza.
- E giusto anche, o Glaucone, diremo che sia un uomo, allo stesso
modo con cui era giusta una città.
- Anche ciò è quanto mai necessario.
- Ma noi non ci siam punto dimenticati che la città era giusta
pel fatto che, delle tre classi che v’erano, ognuna attendeva in
essa al proprio ufficio.
- Non mi pare che ce ne siamo dimenticati.
- Dovremo quindi tenere a mente che anche ciascuno di noi, di cui
ogni singolo elemento attenda al suo ufficio, questi sarà giusto, e
farà l’ufficio suo.
- Certo bisogna ben tenerlo a mente.
- Ora non spetta all’elemento razionale di comandare, qual
saggio che è ed ha la soprintendenza di tutta quanta l’anima, e
all’irascibile di essere soggetto e alleato di quello?
- Certo.
- E, come dicevamo, la contemperanza della musica e della
ginnastica non metterà d’accordo questi due elementi, l’uno
tendendo ed educando con bei ragionamenti e nozioni, l’altro
allentando e blandendo, ammansendolo con l’armonia ed il ritmo?
- Senz’altro.
- E questi due così allevati e veramente istruiti ed educati
nelle cose loro presiederanno all’appetitivo, che in ognuno
costituisce l’elemento maggiore dell’anima ed è per natura più
insaziabile di ricchezze, e guarderanno a che esso, fatto abbondante
e forte col riempirsi dei cosiddetti piaceri del corpo, non cessi dal
fare anch’esso l’ufficio suo, ma tenti invece di asservire e
comandare quelli a cui per nascita non spetta a lui di comandare,
sovvertendo così tutta quanta la vita di tutti.
- Certo, disse.
- E anche dai nemici esterni non si guarderebbero così
ottimamente i due elementi, a custodia dell’anima tutta e del
corpo, l’uno deliberando, l’altro combattendo, tenendo dietro al
reggitore, ed eseguendo col suo valore le deliberazioni di quello?
-È così.
- E coraggioso, io penso, per questa parte chiamiamo ciascuno,
quando il suo elemento irascibile serbi intatto, attraverso i dolori
e i piaceri, il concetto di ciò che è o no temibile, quale fu dalla
ragione prescritto.
- Giusto, disse.
- Saggio, invece, per quella piccola parte che in lui governa e
impartisce appunto tali ordini, avendo anch’essa in sé conoscenza
di ciò che giova a ciascuno, e all’intero comune del complesso di
loro tre.
- Perfettamente.
- Bene. E temperante non sarà l’individuo per l’amicizia e
l’accordo di questi stessi elementi, allorché e quello che comanda
e i due comandati riconoscano insieme che il razionale deve
comandare, e ad esso non si ribellino?
- Certo la temperanza, diss’egli, altro non è che questo, sia
d’una città sia d’un privato.
- E giusto sarà appunto a quel modo, così come più volte
l’abbiam detto.
- Per forza.
- E che?, diss’io. Forse che non ci vediamo più bene, sì che
la giustizia ci appaia qualcosa d’altro da quel che ci parve nella
città?
- A me non pare, disse.
Platone,
La Repubblica, IV, 441 c - 442d; traduzione di F. Gabrieli,
Biblioteca Universale Rizzoli
Due precisazioni vanno fatte in
rapporto a questa planimetria della società che PLATONE descrive:
innanzi tutto occorre ricordare che le classi dello Stato platonico
non sono caste simili a quelle della società indiana, per cui la
nascita in una classe decide irrimediabilmente il destino
dell’individuo; PLATONE ammette infatti una certa mobilità sociale
e la giustifica sulla base delle attitudini naturali del singolo.
In secondo luogo, le accuse di
comunismo rivolte da certa critica a PLATONE per il suo rifiuto della
proprietà privata e per l’educazione in comune dei figli, sono
sostanzialmente fuori luogo, in quanto attribuiscono a tale presunto
comunismo intenzioni teoretiche, mentre esso si spiega esclusivamente
sulla base di una sua utilità pratica (garantire una migliore
conduzione dello Stato).
Ma che tipo di Stato è quello
platonico? Possiamo dire che si tratta di uno Stato fortemente
aristocratico, sebbene proponga un’aristocrazia culturale e non di
censo, e dunque un vero e proprio “governo dei migliori” in cui
la virtù ed il valore del cittadino - che consistono nella
razionalità - garantiscano la libertà collettiva ed individuale.
Legata a questa immagine dello Stato
ideale è l’illustrazione delle forme di governo corrotte, suo
simmetrico negativo, disposte in ordine di perfezione decrescente.
- Il primo livello di degenerazione dell’aristocrazia è la timocrazia, una forma di governo in cui il valore intellettuale viene sostituito dagli onori, con l’esito di confondere indebitamente l’effetto con la causa.
- Quando alla ricerca degli onori subentra quella delle ricchezze la timocrazia cede il passo all’oligarchia, che, proprio per questo è caratterizzata da forti squilibri sociali.
- Il desiderio di denaro e di piacere oltre alle ingiustizie sociali che la caratterizzano spiegano perché facilmente l’oligarchia ceda il passo alla democrazia, che, per Platone, non è quanto noi intendiamo oggi con questo termine, ma la degenerazione estrema dello Stato, in cui il pubblico viene confuso con il privato e viene a determinarsi una situazione sostanzialmente anarchica dove ciascuno cerca il proprio interesse a discapito di quello comune.
- La deregolamentazione totale, l’assenza di punti di riferimento, il vuoto di potere, preparano infine l’avvento della tirannide che, dei regimi possibili, è senz’altro il peggiore in quanto nega in maniera assoluta la libertà individuale.
Leggiamo insieme
il passo platonico dove il filosofo traccia le linee fondamentali
delle varie tipologie costituzionali.
OSPITE - E allora fra tutte queste costituzioni non giuste, pur
tutte pesanti e gravi, quale la meno grave e pesante? Quale la più
tollerabile? Non dobbiamo forse cercar di vedere qualche cosa su
questo problema? Non centrale rispetto al tema propostoci, forse è
proprio questo il problema in vista del quale si. compie ogni nostra
azione.
SOCRATE GIOVANE - Conviene allora trattare anche questo punto.
Come no?
OSPITE - Allora, devi dir così. Vi sono tre costituzioni, e
ciascuna può diventare nello stesso tempo pesante e anche lieve.
SOCRATE GIOVANE - Come dici?
OSPITE - Voglio dir questo. La monarchia, il governo dei pochi e
il governo dei molti sono quelle tre costituzioni di cui abbiamo
fatto cenno all’inizio del discorso.
SOCRATE GIOVANE- Effettivamente.
OSPITE - Allora, dividiamo ciascuna in due parti e ne otterremo un
totale di sei, a prescindere e staccando la settima ch’è la
giusta.
SOCRATE GIOVANE - Come?
OSPITE - Ecco, la monarchia ci dà due aspetti: regale e
tirannico; dal governo dei pochi, si disse, proviene l’aristocrazia,
il cui nome, è già un augurio, e l’oligarchia; nel governo dei
molti, con un nome unico, abbiamo rintracciato poco fa la democrazia;
ora invece si tratta di ammettere che pur questa è doppia.
SOCRATE GIOVANE - Come dici? E secondo quale criterio la
divideremo?
OSPITE - Eh! un criterio che non differirà dagli altri, perché,
capisci, anche se la democrazia non ha un nome doppio, è pure
possibile in questa, come nell’altre forme di governo, un aspetto
legale e uno illegale.
SOCRATE GIOVANE - È proprio così.
OSPITE - Prima, finché cercavamo la giusta forma di governo,
questa divisione era inutile, come poco fa dimostrammo. Siccome,
invece, abbiamo eliminata la Costituzione perfetta e dovuto
accettare, inevitabili, le altre; in queste, appunto, la
caratteristica di legalità o d’illegalità viene a dividere
ciascuna in due sezioni.
SOCRATE GIOVANE - È naturale conseguenza, dopo quanto è stato
detto ora da te.
OSPITE - La monarchia, quando s’accoppia a quelle sancite
scritture che noi chiamiamo leggi, e quando queste leggi siano buone,
è fra tutte le sei costituzioni la migliore. Senza leggi, invece,
pesante e intollerabile se ci si deve vivere.
SOCRATE GIOVANE - Par proprio così.
OSPITE - Quella dei pochi, a quella guisa che il poco è
intermedio fra l’uno e il molto, la dovremo ritenere intermedia fra
le due altre. Finalmente la costituzione che si basa sui molti, sotto
ogni aspetto è debole; se la confronti con le altre non è capace di
nulla che sia grande, in bene o in male, per il fatto che il potere è
frazionato in parti minute nelle mani di molti. Risulta perciò la
peggiore di tutte, in quanto siano legali; la migliore invece in
quanto illegali. Quindi, siccome sono tutte in condizione
d’illegalità conviene passar la vita in una costituzione
democratica. Il giorno in cui diventassero tutte ordinate, non
converrebbe affatto cercar di vivere nella democrazia. In ogni caso,
di gran lunga e preferibilmente e meglio, nella prima, escludendone
sempre la settima, la quale va nettamente distinta da tutte le altre,
come si distingue Dio dagli uomini.
SOCRATE GIOVANE - Direi proprio che sia così; che così avvenga e
che si debba fare conforme alle tue parole.
(Platone,
Politico, 302c- 303b, traduzione di E. Turolla)
6. Stato e politica nella visione aristotelica
Fedele alla sua forma mentis di
“filosofo-scienziato”, ARISTOTELE caratterizza la sua riflessione
politica in maniera più spiccatamente storico-descrittiva,
indulgendo meno all’immagine dello Stato ideale ma preoccupandosi
con molta concretezza e senso critico delle costituzioni esistenti.
Perché nasce lo Stato? Dev’essere
considerato un’istituzione “naturale” o no?
Le risposte di ARISTOTELE a queste
domande sono in linea perfettamente con tutta la tradizione greca;
l’essere umano presenta alcuni bisogni elementari, insieme ad altri
di tipo più “spirituale”. Poiché l’uomo non è
autosufficiente è naturalmente portato ad associarsi ad altri esseri
umani creando perciò strutture di vita associata. La famiglia ed il
villaggio appaiono ad ARISTOTELE sufficienti per soddisfare i bisogni
elementari dell’uomo, mentre la piena realizzazione della sua
essenza richiede l’esistenza della polis.
L’uomo è dunque animale sociale e
perciò “animale politico”, in quanto ARISTOTELE non distingue
l’orizzonte della società da quello dello Stato. All’interno
della polis ed in forza delle sue leggi l’uomo può vivere in modo
oggettivamente buono.
Lo Stato può presentare, secondo
ARISTOTELE, vari modelli costituzionali, a seconda che la sovranità
sia detenuta da un solo uomo, da pochi cittadini o da tutti; avremo
perciò tre tipologie di costituzione, con le relative degenerazioni.
Anche in questo caso di deve notare che
con il termine “democrazia” ARISTOTELE non intende ciò che noi
oggi indichiamo con tale concetto, quanto piuttosto una situazione in
cui venga perduto di vista il bene comune a tutti i cittadini
nell’intento di perseguire, con modalità illegali, il bene dei
cittadini più poveri.
Non esiste una costituzione ideale in
senso assoluto: ciascuna delle tre costituzioni rette può rivelarsi
adeguata a certe situazioni concrete (può infatti accadere che in
una polis vi sia un uomo o un gruppo di uomini eccezionali cui
sarebbe “naturale” affidare il potere) . Tuttavia, dal suo punto
di vista, la politìa si adatta meglio alle caratteristiche
delle città greche del suo tempo e si presenta come una specie di
governo del “ceto medio”.
Costituzioni rette
- Monarchia
- Aristocrazia
- Politìa
Degenerazioni
- Tirannide
- Oligarchia
- Democrazia
Tuttavia lo Stato
ideale, indipendentemente dal tipo di costituzione deve presentare
alcune caratteristiche:
- non troppi cittadini né troppo pochi;
- territorio abbracciabile a vista d’occhio;
- cittadini dotati di qualità intermedie fra i nordici e gli orientali.
Come si intuisce, il criterio che
induce ARISTOTELE a formulare una tale struttura ideale è duplice:
da una parte l’orgoglio ellenico di indicare proprio nella
struttura delle poleis greche l’ideale incarnato dello Stato
perfetto (territorio medio, popolazione né nordica né orientale,
ecc.), ma soprattutto l’intento di mostrare come le poleis greche
costituiscano tale ideale proprio in virtù della loro mesótes,
ovvero della loro “medietà”. Nelle poleis, in una parola, si
incarna il principio tipicamente greco del “giusto mezzo” che lo
stesso ARISTOTELE in altri scritti ha indicato come la radice stessa
delle virtù morali.
Il “giusto mezzo”, criterio della
politica così come dell’etica, altro non è che quell’equilibrio,
quel kósmos che contraddistingue l’operato ordinato della natura.
Il fondamento della polis, dunque, anche secondo ARISTOTELE, riposa
nell’ordine naturale delle cose.
7. L’ideale cosmopolita degli Stoici
Con l’avvento della dinastia macedone
la Grecia perde la sua indipendenza politica e l’equivalenza
uomo-cittadino va in crisi. Le risposte possibili a questa diversa
prospettiva antropologica e politica che si è venuta a determinare
sono state due: la prima, quella propria dell’epicureismo, tendente
a rinchiudere l’essere umano in una sorta di individualismo
indifferente alle questioni dello Stato e della società, la seconda
invece, proposta dagli stoici, mirante ad aprire gli orizzonti
politici ormai angusti della polis verso un ideale politico nuovo,
quello cosmopolita.
Secondo la prospettiva stoica, l’essere
umano tende per natura all’amore di sé e quindi alla propria
autoconservazione, (oikéiosis) ma è portato altresì ad
estendere questo istinto di base ai propri figli, ai consanguinei e,
in definitiva, a tutti gli uomini.
L’uomo è dunque ancora
“naturalmente” animale sociale, ma tale natura non lo spinge
solamente ad associarsi con gli altri in una polis, perché la
finalità non consiste solo, come voleva ARISTOTELE, nella migliore
sopravvivenza, quanto piuttosto nel costruire quella specie di “polis
universale” che è la comunità di tutti gli uomini.
Questo Stato ideale, finisce col
comprendere non solo tutti gli uomini, ma addirittura gli Dei,
finendo col sembrare, nuovamente, un’immagine pura e semplice del
mondo naturale che riunisce tutti i viventi. Non siamo dunque, come
vorrebbe POHLENZ, di fronte alla nascita del concetto di Stato come
lo intendiamo noi oggi, quanto all’estensione e quasi alla
sovrapposizione del concetto di polis con quello di phýsis.
L’ordine civile, il kósmos edificato dall’uomo, ritorna
in seno a quello naturale di cui è sempre stato visto come
espressione.
Nei due brevi testi che seguono,
CICERONE - che pure è da considerare un eclettico più che non uno
stoico - illustra efficacemente il punto di vista degli stoici circa
il rapporto tra legge naturale e legge umana e la necessità della
oikéiosis.
La legge non venne inventata dalla mente umana, né fu
un’arbitraria decisione dei popoli; essa è piuttosto una realtà
eterna, che sorregge il mondo intero attraverso comandi saggi e
divieti. In questo modo [gli stoici] sostenevano che quella legge
prima e ultima fosse la mente divina la quale, secondo ragione,
impone obblighi o divieti ad ogni cosa; per questo viene giustamente
lodata la legge che gli Dei diedero al genere umano; infatti è la
ragione e la mente di un essere saggio quella adatta a dare comandi e
divieti. I comandi e i divieti dei popoli hanno il potere di
invitarci alla rettitudine ed allontanarci dalle colpe, e questo
potere non solo è più antico dell’età dei popoli e delle città,
ma è coevo a quel dio che custodisce e regge il cielo e la terra.
Infatti non vi può essere una mente divina senza ragione, né la
ragione divina può essere priva di questo potere di sanzionare il
bene e il male.
(Cicerone, De legibus, Il, 8 e ss.)
Siamo spiriti dalla natura stessa ad amare coloro che abbiamo
generato. Da ciò deriva che tra gli uomini sussiste un interesse
reciproco degli uni verso gli altri; perciò è necessario che un
uomo, per il fatto stesso di essere un uomo, non appaia estraneo ad
un altro uomo.
Per natura noi siamo portati ad unirci, ad associarci con gli
altri e a costituire una società naturale.
Siamo spinti dalla natura ad essere utili a quanti Più uomini
possiamo specialmente attraverso l’insegnamento e dando regole di
prudenza.
(Cicerone, De finibus, III, 19,62 - 20, 65)