La scissione
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Tante,
troppe volte, mi sono accorto di avere sbagliato domanda. “Cos'è
questo?”, “a cosa serve?”, “quanto costa?”, “è giusto?”,
“è vero?”, “ho scelto bene?”, “il mio lavoro è
gratificante?”, “mi valorizzano?”, “mi ama?”...
Milioni
di domande, per evitare l'unica che mi stava veramente a cuore e non
avevo coraggio di farmi: “sono felice?”. Perché poi, se uno si
mette davanti allo specchio e, onestamente, risponde “sì, ma...”,
oppure addirittura “no!”, allora, da lì in avanti, si mette in
moto un disastro di problemi, perché si è costretti ad ammettere
che tutto il ciarpame con cui abbiamo riempito la nostra vita,
ingombra ma non dà pienezza, occupa ma non convince, stordisce ma
non dà gioia.
E
tu? Sei felice? Non di quella apparente allegria chiassosa che ci può
prendere a sprazzi per una qualunque banale ragione, ma della
felicità silenziosa, quotidiana, quell'interiore sottile beatitudine
interiore, nonostante la fatica del vivere, che consiste nel
percepire armonia dentro e fuori di sé, nell'avvertire che siamo nel
luogo e nel tempo giusto, che non dobbiamo andare da nessun'altra
parte, né cercare qualcos'altro.
Sì,
ma...
Cos'è
mai questo “ma”? Io credo che sia l'esperienza della scissione,
della frattura che ci portiamo dentro.
Talvolta
tale scissione è macroscopica, persino patetica; fino alle otto del
mattino sono un marito affettuoso e un tenero padre, insegno ai miei
figli il dialogo, la tolleranza, il senso della gratuità. Poi esco
di casa e immediatamente divento aggressivo, il tempo mi sfugge, devo
rispondere a standard elevati, essere competitivo, opportunista, a
volte duro, un po' menefreghista.
Viviamo
in maschera.
L'essere
umano è sempre “altrove”. Quando è a casa pensa all'ufficio,
quando è in ufficio sogna la vacanza, quando è in vacanza pensa a
casa... Siamo in un luogo con l'ansia di essere reperibili da ogni
altro; ignoriamo chi ci sta accanto per “comunicare” sui social
networks o tempestare di telefonate e messaggi chi ci sta lontano. Il
nostro spirito, la nostra psiche e il nostro corpo non sono mai nel
medesimo luogo.
Con
il tempo è anche peggio: pensiamo a domani, a dopodomani; facciamo
piani per decenni, oppure viviamo di ricordi, di rimpianti. Mai una
volta che ci venga il sospetto che l'unica vita che c'è sia qui e
ora. Proiettati sempre verso un altro tempo e un altro luogo,
attraversiamo i mille istanti del presente senza riconoscere la vita
e la bellezza che pulsano in essi.
Viviamo
in una sorta di permanente conflitto tra l'essere e il dover essere,
tra la vita, così com'è e gli standard che abbiamo assunto dalla
pressione sociale e dalle abitudini culturali.
Ci
poniamo un obiettivo dopo l'altro in modo da doverci sempre muovere,
da essere sempre costretti a rincorrere un tempo, un luogo, un
livello, uno stadio diverso da ciò che siamo. Dopo ogni obiettivo ne
dobbiamo porre un altro. Il baricentro della nostra vita è sempre
“fuori” di noi, il nostro vivere è un eterno “tendere verso”,
sempre insoddisfatto.
Attualmente
non sono ancora felice, ma quando avrò fatto quel corso, quando avrò
quell'auto, quando avrò conquistato quella donna, quando avrò
incontrato quel maestro, quando avrò la promozione, quando andrò in
pensione, quando sarò nonno, quando....
Oooops...!
Quando
l'età che avanza, inesorabilmente, ci toglie la possibilità di
porci sempre nuovi obiettivi, la nostra vita perde qualunque
significato. Facciamo dipendere il valore del vivere da qualcosa che
è fuori di esso. Perciò diventiamo incapaci di comprendere la
bellezza intrinseca di ogni vita. Il senso del vivere, per noi, è
dato dalle mete fuori di noi: niente più mete, niente più senso.
Fra
l'altro, ogni nuova meta ne esclude inevitabilmente altre; ogni
nostra scelta chiude infinite altre possibilità e perciò viviamo
nella paura permanente di sbagliare e nel rimpianto di ciò che
sarebbe potuto essere.
Ancora
conflitto. Spesso, paralisi.
La
felicità è appagamento, percezione della perfetta corrispondenza
fra essere e dover essere, coscienza che tutta la pienezza del vivere
è già qui e ora. E' scoprire che non c'è nessun altro luogo dove
andare, nessun altro tempo da attendere, nulla che “debba” essere
fatto. E' percezione dell'armonia che è.
Finché
c'è frattura non ci sarà mai felicità, perché la felicità è
percezione dell'unità, della perfetta fusione.
L'essenza
della frattura sta nel fatto che, per noi, la vita è un mezzo per
“fare cose”, anche se, nei nostri roboanti documenti etici e
giuridici, diciamo di considerarla un fine.
Questo,
dunque, ho imparato: ogni volta che pretendo di essere due persone
diverse c'è scissione, ogni volta che la pressione sociale mi fa
essere diverso da come sono, c'è scissione; ogni volta che vivo nel
passato o nel futuro c'è scissione; ogni volta che sono “altrove”
c'è scissione; ogni volta che il dover essere giudica l'essere c'è
scissione.
Se
tutto questo è inevitabile, allora l'infelicità è inevitabile,
perché siamo costretti a vivere una vita permanentemente incompiuta.