La teoria contesti cognitivi
Materiali
Pro o contro
la scienza?
La scienza oggi
divide.
Spesso, quando
tengo incontri, corsi o conferenze, incontro due contrapposte
tipologie di atteggiamenti nei confronti del sapere scientifico. Vi
sono persone e contesti in cui vige l'equazione "scientifico =
vero". La scienza è considerata il luogo depositario della
verità, anzi, di più, l'unico luogo di questo deposito.
Contro questa
"setta scientista" si scagliano altri contesti e persone,
che sono convinti dell'esatto contrario: la scienza è il luogo
dell'aridità, della pura razionalità, è l'approccio che esclude
dal sapere tutte le variabili tipicamente umane (bellezza, emozione,
soggettività, ecc.) e quindi è, per definizione, luogo di un sapere
disumano, sostanzialmente da rigettare.
Le due sette –
scientista e antiscientista – come tutte le sette, non dialogano né
fra loro né con altri approcci gnoseologici e quindi ai miei occhi
appaiono sostanzialmente come atteggiamenti mentali ottusi, che
restano molto al di sotto della complessità del fenomeno
"conoscere".
Personalmente
mi sono misurato profondamente con la natura e i limiti
dell'approccio scientifico alla conoscenza; da filosofo della scienza
e logico ne ho esplorato il funzionamento, visto l'intrinseca
bellezza e compresa l'altrettanto intrinseca povertà. Come
meditatore e musicista, invece, ho esplorato percorsi cognitivi
non-verbali, vissuto esperienze di confine, sono passato attraverso
forme di "conoscenza" mediate dall'arte, dall'intuito
soggettivo e dal tocco, a volte entusiasmandomi, ma vedendo anche
tutti i rischi di proiezione e manipolazione che esse comportano.
Dalla
scienza ai "saperi"
Quando ho
iniziato la creazione del BTC Method, mi sono inevitabilmente
scontrato con la necessità di indicare a quale gnoseologia
intendessi fare riferimento: il BTC Method è "scientifico",
"artistico", "oggettivo", "soggettivo",
o che altro...? La risposta a questa domanda è proprio la "Teoria
dei contesti cognitivi", attraverso la quale, invece di
schierarmi pro o contro la scienza, ho voluto tracciare la mappa di
quelli che, secondo me, sono gli approcci conoscitivi irrinunciabili
per l'essere umano. E' nata così la consapevolezza di quanto sia
complessa la gamma degli strumenti che noi possiamo (dobbiamo?)
utilizzare per giungere alla conoscenza e di come, quest'ultima, si
articoli in molte dimensioni e livelli che è necessario integrare
fra loro.
In sostanza la
creazione di un'antropogogia davvero olistica, utilizza differenti
strategie gnoseologiche, che vanno ben oltre il riduttivistico
approccio scientifico-razionale ma sono altrettanto caute di fronte
all'ingenuità di certe prospettive "new age". L'intento è
quello di passare dalla prospettiva della "scienza" a
quella dei "saperi". Divenire consapevoli del fatto che
esistano tanti e diversi "saperi", di cui la scienza è
solo un caso particolare, mette fine – o almeno dovrebbe – alle
guerre settarie. Ogni sapere dev'essere compreso nella sua natura
profonda, specificando ciò che può attingere e ciò che sta fuori
dalla sua portata. E' l'essere umano che dovrà operare la sintesi,
il più possibile armonica, tra i saperi, perché ognuno di essi
dischiude un tratto della natura umana di cui non possiamo fare a
meno.
Come amo spesso
ripetere, la scienza non ha bisogno della mistica, né la mistica
della scienza, ma io, personalmente, ho bisogno di entrambe!
I sei
contesti cognitivi
La teoria dei
contesti cognitivi muove essenzialmente dall'osservazione empirica
delle strategie conoscitive che l'essere umano ha adottato nella sua
vicenda storica, sia individualmente, sia come specie, facendo
emergere i nuclei gnoseologici più forti e significativi che hanno
determinato il formarsi della consapevolezza e del bagaglio culturale
dei singoli e della specie. A mio avviso, tali contesti cognitivi
sono sostanzialmente sei:
- il contesto cognitivo "pragmatico-esperienziale"
- il contesto cognitivo "poetico-artistico"
- il contesto cognitivo "storico-documentale"
- il contesto cognitivo "metafisico"
- il contesto cognitivo "logico-razionale"
- il contesto cognitivo "mistico"
Ciascuno di
questi diversi contesti cognitivi rappresenta un "blick",
un particolare punto di vista, che dischiude una certa visione della
realtà e della vicenda umana, apre una specifica prospettiva, si
serve di determinati processi mentali e operativi, costruisce
particolari forme di sapere e presenta limiti intrinseci. Nessuno di
essi è "oggettivo", né assoluto. Nessuno di essi
dischiude "la verità". Ogni contesto cognitivo è soltanto
un approccio parziale, più o meno funzionale verso alcuni specifici
problemi e ambiti della realtà. Tuttavia, non si tratta di sei
modalità gnoseologiche chiuse ed isolate: al contrario, ciascuna di
esse è in profondo rapporto con alcune altre e, considerate nel loro
complesso, costituiscono una specie di “cerchio” gnoseologico
estremamente suggestivo.
Contesto
cognitivo "pragmatico-esperienziale"
Il contesto
cognitivo pragmatico-esperienziale è senza dubbio il punto di
partenza di ogni strategia conoscitiva, che si esprime sia
individualmente (è l'approccio alla realtà già tipico del bimbo)
che a livello di specie, nella forma delle culture popolari.
Questo
approccio, apparentemente banale, consiste nell'imparare dalla
propria esperienza, cosa che, a parole, sappiamo fare tutti. Le cose,
però, non stanno così. Se fosse davvero facile imparare
dall'esperienza non ci sarebbero persone che reiterano i medesimi
errori (di approccio, di relazione, di gestione del proprio corpo o
del proprio tempo, ecc.) per anni e, a volte, per l'intera vita.
In realtà,
imparare dall'esperienza significa potenziare adeguatamente la
capacità di osservare, quella di discriminare tra esperienze diverse
e di concatenare situazioni di causa-effetto. Osservare non è
affatto una cosa scontata. Incontro moltissime persone, nei corsi di
analisi morfologica e posturale, che letteralmente "non vedono"
dettagli anche macroscopici, oppure colgono inezie ma non aspetti
essenziali. C'è in tutti una grande smania di "interpretare"
segni, di attribuire significati, chiavi di lettura, ecc., che opera
praticamente sul nulla, perché se non si è "visto",
neppure si può intendere.
E per "vedere"
occorre quiete mentale, centratura, vuoto... Per "vedere"
realmente occorre tacitare le proiezioni, la smania di "capire";
occorre l'atteggiamento contemplativo tipico dei bimbi, totalmente
assorbiti nell'esperienza, senza giudizio su di essa. Osservare è il
primo gradino della consapevolezza e del risveglio.
I processi e le
abilità cognitive che questo atteggiamento costruisce nell'adulto
sono parecchi e fondativi. Primo fra tutti l'atteggiamento
dell'"essere presenti"; l'osservazione
pragmatico-esperienziale può vivere solo nel "qui e ora".
Di qui discendono la capacità di grande concretezza che questo
approccio gnoseologico produce, l'abilità a fornire risposte
immediate (anche se magari non sempre ottimali), l'attitudine al
"problem solving".
L'esperienza
corporea, che si acquisisce nel lavoro su di sé e insieme agli
altri, attraverso il tocco, appartiene in parte a questo orizzonte
cognitivo. Osservazione, capacità di cogliere segnali sottili senza
perdere di vista quelli grossolani, capacità di ascolto, presenza e
consapevolezza sono ingredienti essenziali nel "touch" e
nel "bodywork".
Tuttavia non ci
si può rinchiudere nel contesto cognitivo pragmatico-esperienziale,
perché esso muove di fatto dai ridotti punti di vista
dell'ossevatore e spesso dà luogo a pseudo-saperi, incarnati nelle
tradizioni popolari, che sono un mix di saggezza e pregiudizio, di
coglimento dell'essenziale e di sovrastrutture sociali spesso banali
e castranti. Perciò, sin dagli albori della sua vicenda sul pianeta,
l'essere umano ha concepito altre modalità per decodificare il mondo
e sé stesso.
Contesto
cognitivo "poetico-artistico"
Si tratta di un
approccio conoscitivo che appartiene all'essere umano sin dall'alba
della sua esistenza. Già le culture del paleolitico, attraverso
incisioni rupestri, reperti fittili, ecc., testimoniano un
rudimentale approccio artistico alla realtà. L'intento di imitare
ciò che si è visto, raccontarlo, lasciarne memoria. Oppure, come
nell'arte egizia, l'intento di rappresentare graficamente ciò che si
conosce, ancor più di ciò che si vede.
L'approccio
poetico-artistico sembra nascere innanzi tutto con l'intento di
raccontare e documentare e quindi dall'idea di tramandare e di dare
testimonianza (il che ne fa l'interlocutore naturale dell'approccio
storico). Tuttavia, molto presto l'approccio poetico artistico inizia
ad esprimere assai più di ciò che vede o ricorda. Esprime ciò che
ha compreso. Già nell'arte greca, ad esempio, si esprime la
comprensione della "misura", della proporzione, del
rapporto perfetto, si coglie l'idea nascosta nelle cose, che dà loro
forma.
Il contesto
cognitivo poetico-artistico diviene così il luogo privilegiato dove
si creano e si decodificano segni, simboli, metafore, significati,
che non necessariamente vengono espressi verbalmente, ma
rappresentati nei modi dell'arte. La letteratura, le arti figurative,
la musica, la danza, il teatro, scaturiscono da questo approccio
gnoseologico e popolano il mondo di "visione", lo rileggono
dal punto di vista della categoria dello "stupore", lo
approcciano nell'ottica del bimbo, ne colgono l'aspetto di intrinseca
magia.
Questa
dimensione fiabesca è tanto essenziale per l'essere umano quanto lo
è quella onirica per la mente. Se si atrofizza questa dimensione si
paga un prezzo evolutivo altissimo: scompare la dimensione del
mistero, si atrofizza la fantasia, che è la radice della creatività,
ci si rinchiude nella brutalità della dimensione materiale, non ci
si "allena" più a intravedere lo spazio dell'Oltre, del
vuoto che si nasconde fra le linee, dell'idea-forma che riposa nella
materia. Credo che la grande esperienza artistica sia davvero la
propedeutica alla mistica, perché attraverso ciò che si vede e si
tocca, porta al di là di ciò che si vede e si tocca. Attraverso la
musica conduce a scoprire che siamo vibrazione e informazione,
attraverso la danza porta il corpo ad esprimere l'invisibile.
A volte mi è
stato contestato che non è corretto assumere una prospettiva
poetico-artistica nell'approccio psicologico, pedagogico e
antropogogico, perché essa è inevitabilmente soggettiva e
proiettiva. Io sono di tutt'altro parere.
Concordo
pienamente sul fatto che l'approccio poetico-artistico sia soggettivo
e proiettivo, ma proprio per questo, a mio avviso, è decisivo. Le
immagini, le forme, le idee, gli archetipi che un essere umano vede
nella realtà che lo circonda, certamente non mi dicono nulla della
"realtà", ma mi dicono molto di colui che la vede. E
questo rende l'espressione poetico-artistica uno strumento essenziale
per l'introspezione del soggetto. In fondo si tratta del principio
che sta alla base di tutti i test proiettivi in psicoterapia.
Inoltre, quando
si sale da un punto di vista individuale a quello di specie,
l'espressione poetico-artistica consente di osservare come, culture
diverse e molto lontane fra loro, nelle loro espressioni artistiche
si siano servite (o abbiano creato?) archetipi simili, forme
simboliche ricorrenti, stilemi espressivi, che potrebbero (il
condizionale è d'obbligo) parlarci di un fondo comune dell'essere
umano in quanto tale, ridarci le chiavi di decodifica della realtà
che ogni uomo e donna possiede "naturalmente", farci
scoprire la categorizzazione di base che poi, spesso, la filosofia si
è incaricata di esprimere verbalmente.
Contesto
cognitivo "storico-documentale"
L'identità è
memoria.
È essenziale
riflettere su questa equazione per comprendere la profonda necessità
che l'essere umano ha di questo approccio cognitivo. La mia identità
incarnata, ovvero il fatto che io mi percepisca come Luigi Lacchini,
dipende dal fatto che mi ricordi chi ero "ieri" e i giorni
precedenti. Non a caso, chi perde la memoria perde l'identità,
perché nella memoria riposa tutto il contesto relazionale (con
persone, ambienti, esperienze, ecc.) che fa di un essere umano un
uomo o una donna specifica.
Tuttavia non è
molto difficile rendersi conto che la memoria non è affatto un
processo "oggettivo", come a volte si crede, ma selettivo
e, spesso, proiettivo. Io non ricordo affatto tutti gli eventi che mi
riguardano; ne ho selezionati alcuni e altre persone ne hanno
selezionati altri che mi hanno riportato, facendomi credere che siano
importanti per definire "chi sono". In molti casi il
ricordo non è nitido e viene integrato sulla base di ricostruzioni
proiettive di cui spesso non siamo neppure coscienti. La mia identità
è una serie di memorie selezionate e, talvolta, costruite ad hoc.
La stessa cosa
avviene a livello di specie; saperi come l'archeologia o la storia,
ci riconsegnano memorie selezionate, estrapolando dall'infinita messe
dei "dati" possibili, quelli ritenuti "significativi",
ovvero realmente espressivi dell'identità di una cultura o di un
periodo. Il processo è in larga parte arbitrario, non nel senso che
sia deliberatamente deformativo, ma inevitabilmente parziale e
proiettivo.
Fra i dati di
memoria e la ricostruzione di un'identità vi sono tre filtri:
- veniamo in possesso soltanto di una piccola parte di "tutti" i dati che caratterizzano un individuo o un periodo storico;
- all'interno di questa selezione ne operiamo un'altra, decidendo quali fra i dati disponibili siano significativi;
- "rileggiamo" questa doppia selezione collegando e interpretando i dati disponibili-significativi sulla base di nostre visioni, precomprensioni, informazioni, aspettative, pregiudizi, ecc.
Il risultato di
questo processo distorsivo, lo chiamiamo "identità" (di un
individuo o di un periodo storico); è un curioso procedimento, che
muovendo da presupposti oggettivi (i "dati" sono pur sempre
tali), è del tutto soggettivo. Ciò che emerge parla più del
ricostruttore che della reale identità.
Questo vale
anche quando l'identità ricostruita è la mia e sono io lo storico
di me stesso. L'identità che mi attribuisco, in realtà, non dice
davvero chi sono, ma che filtri utilizzo per guardare le cose.
Prendere
coscienza di tutto questo è essenziale nei processi pedagogici; a
volte un essere umano vive un blocco evolutivo perché è
intrappolato in una certa immagine di sé che viene dalla memoria e
quest'ultima è stata in gran parte creata da genitori, maestri,
insegnanti, amici, mogli, ecc. La mia identità finisce con l'essere
ciò che altri mi hanno rimandato di me. A volte è sufficiente far
riaffiorare altri dati di memoria, togliere l'importanza ad alcuni e
darne maggiore ad altri, per guardare a se stessi in modi nuovi e
inaspettati.
Questo è vero
sia a livello individuale che di specie. La selezione specifica di
certe memorie è ciò che ci fa classificare una civiltà come
portatrice di determinate caratteristiche piuttosto che altre. Se
invece di selezionare e "ricordare" dati relativi alla
tragedia o alla filosofia, selezionassimo solo testimonianze sulla
condizione femminile, come cambierebbe la nostra percezione della
civiltà greca classica?
Perciò il
contesto cognitivo storico-documentale è una modalità di approccio
con la realtà che risulta essere al contempo essenziale e da
superare o, quanto meno, da relativizzare. Essenziale perché senza
identità, senza de-limitazione, nel mondo incarnato non c'è
manifestazione e, al tempo stesso, da relativizzare perché è facile
cogliere che qualunque manifestazione è appunto figlia di una
de-limitazione parziale e arbitraria e potrebbe dunque essere
diversa. Allenarsi all'utilizzo del contesto cognitivo
storico-documentale porta a cogliere come le identità, sia personali
che collettive, non siano altro che "personaggi", che
potrebbero anche essere "scritti" in altro modo. Si passa
dall'orizzonte della storia a quella delle "storie", dal
documentale al narrativo. E a questo livello, il contesto cognitivo
si intreccia con quello poetico-artistico. La dimensione "teatrale"
dell'esistenza, singola e collettiva, ne relativizza l'importanza. Le
identità sono personaggi di una recita – così le pensano le
filosofie orientali – indipendentemente dal fatto che le abbia
descritte un autore teatrale, ricostruite uno storico o tramandate un
genitore.
Per questo
motivo, l'approccio storico-documentale, che si concretizza nei
saperi della storia, dell'archeologia o della narrazione
letteraria-teatrale, può condurre a percepire la possibilità di
andare "oltre l'identità" e quindi oltre la memoria. Si
spalanca così la dimensione del "qui e ora", astorico e
aprogettuale, e la prospettiva psicologica di uno spazio al di là
del soggetto: la transpersonalità.
Contesto
cognitivo "metafisico"
L'essere umano,
praticamente da sempre, ha avuto l'inclinazione a formulare letture
interpretative globali della realtà. L'ha fatto inizialmente
elaborando cosmogonie e teogonie mitologiche e, successivamente,
riformulandole in termini parzialmente logico-razionali. Si tratta
della costruzione di quelle che vengono solitamente chiamate
"filosofie" (il plurale è d'obbligo!) o "metafisiche".
Talvolta, assai
sbrigativamente, si contrappongono queste costruzioni razionali
filosofiche alle teorie scientifiche, senza rendersi conto, che
spessissimo, queste ultime, non sono altro che "estrapolazioni",
cioè spinte interpretative di dati, esperimenti, ecc. formulate in
modo logico-razionale sulla base di precomprensioni, esattamente come
accade per le metafisiche.
Il contesto
metafisico spesso attinge dagli archetipi della prospettiva
poetico-artistica e si nutre delle storie individuali e collettive,
indagandone il "senso", o meglio, dato che nell'accadere
storico c'è il puro essere, ricostruendo proiettivamente un senso
possibile.
È un tratto
cognitivo irrinunciabile per l'essere umano. Il tentativo di passare
dal caos di una realtà esperita che è diacronica e intrecciata di
storie, all'ordine di una visione d'insieme. Costruire modelli
coerenti del reale, dando manifestazione al desiderio profondo di
comprendere. Anche l'arte si spinge a questo, ma la prospettiva
filosofica e cosmologica cercano di farlo con risorse prevalentemente
razionali, cercando di "montare" modelli esplicativi le cui
parti siano reciprocamente congruenti.
Questi modelli,
quando hanno un'adeguata fortuna storica, si insinuano a tal punto
nella visione del mondo dei singoli esseri umani, da non essere quasi
più percepiti per quello che sono realmente, ossia delle costruzioni
mentali, ma scambiati per prospettive "ovvie" e "naturali"
da cui leggere la realtà. È avvenuto ad esempio con il platonismo,
che abituandoci a ritenere ovvio il dualismo psiche/corpo, ha dato
sostanza a tutte le voci ascetiche per millenni, e ci ha suggerito
l'esistenza di una realtà invisibile molto più attraente e
definitiva di quella visibile.
È accaduto con
l'aristotelismo, da cui tutti noi ignoriamo di essere "posseduti",
con le onnipresenti categoria di forma, essenza, causa efficiente,
ecc.; è accaduto con la scienza galileiana e newtoniana, che abbiamo
"esportato" in ogni angolo della nostra comprensione del
reale, compreso quelli dove proprio non funziona.
La cosa davvero
affascinante e insieme destabilizzante, nelle costruzioni
metafisiche, è proprio il fatto di elaborarne di nuove, capaci di
guardare il mondo da punti di vista mai esplorati, di creare
categorie originali, visioni capovolte. Si scopre così che anche le
metafisiche, le filosofie, le cosmologie, nonostante tutta la loro
seriosità teoretica e le forti esigenze razionali, altro non sono
che storie e racconti, prospettive di lettura, archetipi che mettono
in gioco facoltà diverse da quelle dell'approccio poetico-artistico
o storico. Tant'è vero che, al confine fra questi tre mondi
(metafisico, poetico e storico) stanno le grandi religioni, di cui
gli esseri umani non sembrano poter fare a meno, proprio per la loro
capacità di fornire coordinate di riferimento, in un mondo
altrimenti fluido, "fuzzy".
Le grandi
metafisiche, le estrapolazioni delle teorie scientifiche, le
cosmologie e le religioni sono un po' l'esatto opposto
dell'atteggiamento del "qui e ora"; esse cercano una
rassicurante permanenza, una stabilità – umanamente più che
comprensibile – in una realtà sfuggente, dinamica e spesso, almeno
apparentemente, del tutto priva di senso.
Contesto
cognitivo "logico-razionale"
Dai tempi della
nascita della filosofia in Grecia, circola in Occidente uno strano
pregiudizio, una precomprensione totalmente senza fondamento, che
tuttavia ha trovato una fortuna immensa e ha finito con l'essere
implicitamente accettata dall'élite culturale e da gran parte delle
persone: questa precomprensione gratuita consiste nel ritenere che
tutto ciò che viene creato o scoperto attraverso la ragione logica,
il logos (o almeno così si crede), abbia un fondamento di verità
molto più solido rispetto a ciò che viene creato, scoperto o
esperito attraverso altre facoltà dell'essere umano, come l'istinto,
l'affettività, ecc.
Ciò anche in
forza del fatto che si ritiene che tutto ciò che è legato al logos
sia "oggettivo" e quindi "vero", mentre ciò che
è legato a facoltà come l'istinto o l'affettività sia "soggettivo"
e quindi frutto di interesse personale, proiezione, attrazione senza
controllo. In molti testi scolastici di filosofia, che servono
appunto per costruire precomprensioni nelle menti dei giovani, si
ripete che il passaggio "dal mythos al logos" va
considerato un progresso dell'umanità nel suo complesso.
In tempi più
recenti, si è ripetuto e raffinato ulteriormente questo
atteggiamento, dando particolare enfasi a una particolare forma di
logos, quella che si esprime nel pensiero cosiddetto "scientifico",
che è diventato il feticcio fra tutti i possibili approcci
dell'essere umano alla realtà.
Io non sono un
detrattore del contesto cognitivo logico-razionale, come spesso
accade tra chi si occupa di prospettive olistiche, perché ritengo
che in esso vi sia una profonda saggezza e concordo pienamente con
Goya nella consapevolezza che "il sonno della ragione evoca
mostri". Ciò che mi interessa, però, è circoscrivere la
portata di questo contesto cognitivo, di mostrarne la grandezza ed
insieme i limiti.
Indubbiamente
l'approccio logico-razionale alla realtà è un ottimo freno per le
"bufale", quelle pseudo-verità assiomatiche, totalmente e
gratuitamente inventate di cui è purtroppo pieno il mondo "new
age" e olistico. La capacità "distruttiva" della
ragione mi è ben nota; la sua abilità nel fare giustizia di
preconcetti, luoghi comuni, banalità di origine storico-sociale,
ecc. è, ai miei occhi, una vera benedizione.
Questo,
tuttavia, non significa che l'approccio logico-razionale dia origine
a un sapere vero e oggettivo, perché tutto ciò che sa fare il logos
è ottenere coerenza rispetto a determinate regole deduttive. La
logica è maestra in tutto ciò. Parte da assiomi stabiliti
arbitrariamente, fissa altrettanto arbitrariamente le regole
deduttive che saranno ammesse e da queste basi – totalmente
inventate – inizia a dedurre tutto ciò che si può. Si tratta di
un gioco formale, che non conduce a nessuna verità. Ed è questa, in
fondo, la profonda onestà dell'approccio logico-formale, se ben
compreso: non pretende di consegnare alcuna verità, ma soltanto di
valutare la coerenza di ciò che viene dedotto da principi dati,
stabiliti da chissà quale altro contesto cognitivo, ma non certo dal
logos.
In questo la
ragione logica è magistrale: nel costruire protocolli a partire da
principi dati e accettati, nel trovare sviluppi coerenti di punti di
vista, nel tracciare percorsi che conducano verso un obiettivo, dopo
che quest'ultimo sia stato stabilito attraverso qualche altra
prospettiva cognitiva.
Proprio
attraverso l'opera del logos, siamo giunti a comprendere che noi
esseri umani non arriviamo mai alla "verità", ma
semplicemente costruiamo modelli esplicativi della realtà che
possono essere più o meno coerenti ed avere un maggiore o minore
grado di accuratezza descrittiva e di funzionalità. Proprio il logos
ci ha insegnato che noi non abitiamo mai davvero il mondo, ma
soltanto le nostre rappresentazioni del mondo.
Il Contesto
mistico
Tutti i grandi
fautori del logos, da Platone a Gödel, passando per Ockham, Kant,
Wittgenstein e molti altri, hanno indicato un confine oltre il quale
il logos non può spingersi, per ragioni strutturali. Uno spazio dove
qualunque eventuale "visione" non può essere "detta",
non può essere ricondotta nell'ambito della verbalizzazione e quindi
della concettualizzazione.
Mi piace
chiamare questo spazio con il nome che usa Wittgenstein: il
"mistico". L'ultimo contesto cognitivo a disposizione
dell'essere umano.
Per esperienza
personale so che le chiavi che aprono lo spazio del "mistico"
non sono in nostro possesso; mi sono dedicato per decenni ad attività
meditative al punto da imparare che non esiste alcuna pratica in
grado di portare con certezza all'interno di questo "Oltre".
Come insegna una nota storiella zen, le pratiche servono soltanto a
farci restare svegli, in modo tale che, se e quando l'Oltre si
mostra, possiamo incontrarlo e riconoscerlo.
Lo spazio
cognitivo del "mistico" accade e, personalmente, non mi è
chiaro quando e perché. Non so neppure se accada per tutti. Forse
sì. Forse molti non sono abbastanza attenti per coglierlo.
Quando si entra
in questo spazio ci sono comprensioni, insights, evidenze
extralogiche ed extraemotive che possono avere una portata
orientativa enorme all'interno della vita, ma sono e restano
totalmente soggettive e non condivisibili, a meno di trovare un'altra
persona che abbia parimenti frequentato questo "luogo-non-luogo".
L'Oltre non può
essere condiviso. Chi non l'ha incontrato non può capire e chi l'ha
incontrato già sa e nessuna ulteriore parola è necessaria. Ha il
carattere dell'esperienza, ma diversamente dal contesto
pragmatico-esperienziale, non accade su base sensoriale e mentre
l'esperienza concreta dà luogo alle culture popolari, tutte diverse
fra loro, l'esperienza mistica appare invece trasversalmente comune a
culture diversissime e, in un certo senso, sovraculturale. In effetti
il contesto cognitivo mistico, pur essendo strettamente personale, è
un tratto che ha storicamente accomunato tantissime donne e uomini di
tutte le civiltà e di tutte le epoche storiche.
Le evidenze
soggettive che il contesto mistico produce sono di una forza
orientativa immensa, possono diventare fondamenta e obiettivi
indiscussi. Resta però sempre il dubbio che non costituiscano la
porta d'accesso ad un effettivo ulteriore livello della realtà, ma
siano semplicemente la proiezione di bisogni e desideri inconsci. Il
mistico non dà garanzia. Parafrasando Platone, mi verrebbe da dire
che è un “bel rischio” o, come direbbe Pascal, una scommessa.
Il contesto
cognitivo mistico, quasi chiudendo un magico cerchio, ci ricollega
alla dimensione esperienziale. Anch'esso è “stupore”, non tanto
e non solo davanti alla vita, ma alle dimensioni più nascoste che
essa dischiude; è la sorpresa di scoprire, come scriveva Eraclito di
Efeso, che “l'armonia invisibile è superiore a quella visibile”.
Come
nell'esperienza pragmatica, anche in quella mistica l'essenziale è
il silenzio, la dimensione dell'Osservatore puro, l'essere totalmente
presenti al momento.
Conclusioni
provvisorie
Nessuno di
questi contesti cognitivi può dirsi esaustivo; nessuno può dirsi
“vero”, nel senso che dischiuda con certezza la “realtà”
nella sua essenza. Probabilmente ha ragione Kant: la “realtà in
sé” non è attingibile per la mente umana. In tutti questi
contesti può nascondersi un tratto proiettivo individuale, legato al
nostro carattere, alle aspettative che abbiamo, alle prospettive
esistenziali che ci immaginiamo.
Nella nostra
vita concreta noi utilizziamo continuamente un mix di questi contesti
cognitivi, mutandoli a seconda della situazione, del nostro stato
emotivo, ecc. (metacriterio emozionale); spesso ne
privilegiamo qualcuno in particolare, a causa della nostra storia
personale oppure a per via di pressioni storiche e culturali o
ambientali (metacriterio storico), o semplicemente perché in
una determinata situazione un certo contesto cognitivo sembra più
funzionale o disfunzionale (metacriterio pragmatico).
La posizione
gnoseologica dell'antropogia olistica e del BTC Method si sostanzia
nella consapevolezza che tutti i contesti cognitivi descritti debbano
essere presenti nel percorso evolutivo dell'essere umano, perché
ciascuno di essi dischiude un orizzonte di comprensione peculiare,
che non può essere surrogato da altri. Un approccio conoscitivo
multidimensionale è l'unico adeguato ad una realtà
multidimensionale. Saperi esperienziali, artistici, storici,
narrativi, filosofici, logico-razionali e mistici sono l'attrezzatura
indispensabile per attraversare l'esistenza con la consapevolezza che
ci è concessa – poca o tanta che sia – senza risposte
definitive, ma con la duttilità di vedere sempre nuove prospettive
di lettura.